Ripensare Marx e i
marxismi
di Alfio Neri
Marcello Musto, Ripensare
Marx e i marxismi. Studi e saggi, Carocci, Roma 2011, pp. 373. € 33
Il modo di leggere Marx è
cambiato negli ultimi anni. Gli scritti sono (quasi) sempre quelli ma sono intervenuti
due fattori nuovi che hanno cambiato molte cose.
Innanzitutto, i nuovi
equilibri geopolitici hanno reso obsolete le letture legate agli schieramenti
della guerra fredda. Inoltre siamo molto vicini alla (speriamo) definitiva
edizione delle opere complete di Marx ed Engels. In questo momento, l’intricata
matassa dei testi pubblicati in vita (pochi) e delle opere rimaste manoscritte
(tante) è ora, finalmente, disponibile. La fine della guerra fredda e la
pubblicazione integrale di tutto (o quasi) quello che Marx ha scritto ci
permettono di leggere in modo nuovo l’intera sua opera. Il punto di partenza è,
comunque, un paradosso: in settanta anni il paese del socialismo scientifico
non ha avuto il tempo di terminare un’edizione filologicamente scientifica
delle opere complete del suo massimo ispiratore.
Negli ultimi anni è stato fatto
molto per sbrogliare l’intricata matassa degli scritti di Marx e il lavoro
filologico di Musto è uno dei più interessanti. Sulla base delle recenti
acquisizioni ottenute con la nuova edizione storico-critica delle opere
complete di Marx ed Engels (Marx-Engels-Gesamtausgabe, MEGA), Musto
ricostruisce con rigore e acume tutta una serie di tappe della biografia
intellettuale di Marx e della sua opera. Questo lavoro di attenta lettura mette
in luce l’enorme distanza tra la teoria critica di Marx e il dogmatismo dei
marxismi che, dalla fine Ottocento ad oggi, sono seguiti. Si tratta di un
lavoro importante che sta aprendo nuove prospettive di notevole spessore
teorico.
La chiave di volta della vicenda
sta, probabilmente, nella straordinaria vicenda della pubblicazione dei suoi
scritti. La storia edizione dell’opera omnia di Marx, su adeguati criteri
filologici, è sconcertante.
Il primo tentativo, assolutamente
prometeico, si ebbe dopo la Rivoluzione Russa e terminò con la deportazione e
la morte di Rjazanov, il suo principale curatore. Ripeto, nel paese della
dittatura del proletariato, il filologo che curava la pubblicazione del suo
massimo teorico, scomparve in un campo di concentramento verso la fine degli
anni Trenta, dopo avere iniziato il suo lavoro. La pubblicazione delle opere
complete di Marx ed Engels fu ritentata con l’apporto della Germania dell’Est
negli anni Sessanta. Dopo una breve interruzione legata al crollo del sistema
sovietico, l’edizione delle opere complete sta chiudendosi ora con la
pubblicazione degli ultimissimi inediti (sulle vicissitudini della
pubblicazione cfr. pp. 189-202, sulle ultime acquisizioni cfr. pp. 205-216).
Qualche problema era sorto fin
dall’inizio. La contingenza storica è sicuramente presente. Chiaramente hanno
influito lo stalinismo, il crollo dell’Urss ma anche le lotte ai vertici della
socialdemocrazia tedesca. Però una parte importante di questo ritardo risiede,
anche, nella profonda incompiutezza dell’opera. Marx aveva una prospettiva
teorica titanica. Rispetto al lavoro svolto, le opere pubblicate in vita furono
poche. Alla sua morte, gli scritti incompiuti erano molti, ma molti di più, di
quelli pubblicati in vita. Vista nel suo insieme l’opera è immensa ma
soprattutto è drammaticamente incompiuta, frammentaria e talvolta
contraddittoria. Lo sforzo di comprensione di Marx terminò per la scomparsa
dell’uomo empirico, non perché il suo pensiero avesse trovato la quiete.
Ripetiamolo, Marx aveva in mente
un piano di ricerca colossale. Di questo progetto ne fu portata a termine solo
un’esigua parte. Dopo la sua morte, Engels cercò di costruire, in modo
redazionale, un’opera quanto più possibile organica. Per farlo provò a legare
fra loro un’ampia serie di redazioni non definitive scritte in tempi diversi.
Engels era in buona fede e anche per questo i suoi contemporanei diedero
credito a questa lettura unitaria. Inoltre questi materiali erano in genere dei
frammenti molto voluminosi con un elevato livello d’elaborazione teorica a cui
mancava un’intelaiatura generale. Insomma quello che Engels diceva di Marx
sembrava ragionevole.
Engels aveva in mente un
approccio dialettico e positivista. Attorno a questa impostazione presentava e
organizzava le opere del suo grande amico. Questo modello teorico, una forma
non banale di materialismo dialettico, aveva il grande vantaggio di essere
molto vicino alle scienze naturali dell’epoca. Aveva però anche il difetto di
legare in un insieme falsamente omogeneo frammenti di epoche diverse fra loro
in parziale contrasto. Di fatto il suo lavoro redazionale (e anche lo spirito
della sua epoca) fecero leggere l’opera del suo amico dentro un’ottica
positivista abbastanza lontana da molta parte della sua produzione.
Negli anni seguenti, il pensiero
di Marx venne diffuso sulla base di opuscoli, sintesi e compendi che erano a
loro volta il prodotto di riassunti di edizioni ampiamente rimaneggiate e
censurate. Banalizzata per ottenere un effetto propagandistico, la forma
manualistica utilizzata si traduceva in un grave impoverimento del patrimonio
teorico originario. Il risultato fu una teoria schematica ed elementare, un
evoluzionismo intriso di determinismo economico che, già ai primi del
Novecento, era incapace di comprendere la propria epoca. Dopo molte vicende, il
paradosso assoluto fu raggiunto in epoca staliniana. Le trasformazioni
politiche e sociali e la lotta ai vertici del partito stabilizzarono una teoria
dogmatica, assolutamente inflessibile. Questo monolite diceva di ispirarsi
all’opera di un autore i cui scritti erano non pubblicati e che il regime, che
a lui si ispirava in modo ferreo e indiscutibile, prudentemente non rendeva
pubblici per evitare spiacevoli discussioni. In questi anni Marx cessò di
essere una proficua guida per l’azione per diventare una sistematica
giustificazione a posteriori dei satrapi di turno.
Oggi, l’edizione su adeguati
criteri scientifici delle opere complete di Marx ci permette di rileggere tutta
la storia del marxismo con occhi diversi. La distanza rende possibile vedere le
stesse cose con un diverso punto di vista e formulare nuove questioni a vecchi
problemi. Inoltre oggi, finalmente, abbiamo sotto gli occhi (quasi) tutto
quello che Marx aveva scritto; gli scritti troppo rivoluzionari che i vertici
della socialdemocrazia tedesca avevano occultato e quelli poco marxisti che
l’URSS staliniano non aveva mai avuto il coraggio di pubblicare.
La tesi di fondo di Musto è che
Marx non è un autore monolitico. Ci sono molti temi ricorrenti ma non c’è
un’intuizione straordinaria molto precoce che si sviluppa in modo lineare nel
corso del tempo. Al contrario, Marx è un autore plurale, dominato da vari
interessi che si evolvono nel corso del tempo; un autore non dogmatico che in
momenti diversi ha opinioni differenti su importanti questioni teoriche. Come
studioso incontra l’economia politica dopo avere studiato la filosofia, la
storia, il diritto. Come rivoluzionario vive vicende personali drammatiche fino
a che si trova in esilio a Londra, nel punto nevralgico del capitalismo. Pensa
di tornare appena possibile alle lotte, poi esaurito il ciclo del quarantotto,
inizia a studiare il mondo nuovo che si sta formando. Marx nella disgrazia ha
anche fortuna perché il caso lo ha portato nel centro del capitalismo mondiale.
Poteva finire ucciso sulle barricate, prigioniero in carcere, dimenticato in un
qualche lavoro impiegatizio negli Stati Uniti e invece diventa uno dei più
importanti pensatori di tutti i tempi.
Anche teoricamente molte cose
sono ancora da studiare. Fino a pochi decenni fa, il gigantesco lavoro di scavo
fatto nei lunghi anni che precedono la pubblicazione del primo libro de Il
Capitale era ancora ignoto. In quegli anni oscuri Marx affrontava questioni e
problemi e offriva soluzioni provvisorie in seguito ampiamente rielaborate. In
questo senso, tutta l’opera è da considerarsi come una rete di riflessioni fra
loro inter-comunicanti. L’idea di Engels, quella di una via a senso unico che
termina in un’unica teoria monolitica, è in contrasto con storia del testo che
mostra invece un’enorme varietà di analisi.
Sono importanti anche le
acquisizioni filologiche che si sono accumulate negli ultimi decenni. I Manoscritti
economico-filosofici del 1844 non sono un’opera a sé stante ma solo una serie
di quaderni di appunti parzialmente incompleta (ne manca uno). Questi scritti
furono pubblicati congiuntamente nello stesso volume dando l’impressione di
essere le bozze di un libro destinato alla pubblicazione dallo stesso Marx (cfr
45-77). L’edizione venne fatta all’inizio dell’era staliniana e precedette di
qualche anno l’eliminazione fisica di Rjazanov, il curatore. Questo testo
fittizio ebbe una storia molto importante perché la sua fortuna fu
essenzialmente politica. Per decenni fu l’arma teorica usata dalla sinistra
antistalinista per contrapporsi, in un’ottica rivoluzionaria, al Marx de Il
Capitale, all’epoca egemonizzato da una lettura determinista e sostanzialmente
staliniana (cfr. pp. 225-272).
Qualcosa di simile si può dire
anche de L’ideologia tedesca. Per prima cosa va detto che non è un testo
unitario. Diede questa impressione perché fu pubblicato in un unico volume. In
realtà si trattava di saggi separati che avevano delle importanti connessioni
interne. Inoltre l’assenza di altre rielaborazioni filologiche contribuì molto
a dare questa falsa impressione di unitarietà. Al contrario, il lavoro degli
ultimi decenni ha evidenziato una serie di seri problemi testuali, ad esempio,
come la presenza di alcuni brani che, probabilmente, non sono di Marx. Si
tratta di fogli volanti inseriti nel manoscritto (potevano sembrare degli
incisi) la cui provenienza era assolutamente incerta.
Complessivamente il lavoro
filologico è andato molto avanti ma non è terminato. Anche quando i testi sono
adeguatamente ricostruiti lo sforzo di interpretazione non è detto che abbia
già dato tutti i risultati possibili. Per esempio è già venuto il momento di
procedere ad una nuova edizione dei Grundrisse (un punto di partenza lo offre
lo stesso Musto alle pp. 76-105 ma anche alle pp. 151-186). Un'altra questione
da riprendere in mano è quella delle crisi periodiche del capitalismo visto che
Marx non scrive mai esplicitamente che il capitalismo è destinato a crollare.
La questione è importante perché la teoria del crollo, la tesi della fine
incombente della società capitalistico-borghese, fu proclamata dalla seconda
internazionale l’essenza più intima del socialismo scientifico. «Le
affermazioni di Marx volte a delineare i principi dinamici del capitalismo e,
più in generale, a descriverne la tendenza di sviluppo, furono trasformate in
leggi storiche universalmente valide, dalle quali fare discendere, sin nei
minimi particolari, il corso stesso degli eventi» (p.193). Di fatto la fine del
capitalismo, che per Marx era desiderabile, per i marxisti, diventa
"scientificamente inevitabile". Rimanendo sempre sul terreno de Il
Capitale, occorre ancora esaminare nel dettaglio i cinquemila (5.000!)
interventi che il vecchio Engels opera sul secondo libro del capitale. Molti
interventi sono semplici correzioni ma la quantità è assolutamente enorme. Non
voglio tediare. Dico solo che, altre volte, il lavoro di individuazione del
testo ha permesso di mettere in evidenza che certe cose che sembravano scontate
in realtà non lo erano.
Un capitolo interessante riguarda
le traduzioni italiane del Manifesto del partito comunista. Per tutti gli anni
Ottanta dell’Ottocento, Marx fu un autore quasi ignoto in Italia (in ogni caso
il leader anarchico Carlo Cafiero pubblicò nel 1879 il Compendio del Capitale
di Marx come strumento teorico di formazione politica). La prima traduzione fu
de il Manifesto è del 1889. Si trattava di un lavoro di bassa qualità di
Leonida Bissolati, una specie di popolarizzazione del testo di Marx con alcuni
brani tradotti letteralmente. Nel 1891 l’importante leader anarchico Pietro Gori
pubblicò presso Flaminio Fantuzzi, un editore anarchico, una traduzione in
italiano di un’edizione francese del 1885. Solo l’anno dopo uscì la traduzione
del Manifesto del partito comunista di Pompeo Bettini fatta su un edizione
tedesca del 1883. Questa traduzione, più volte ristampata nei decenni seguenti,
fu l’edizione di riferimento del marxismo italiano tanto da dare avvio al
processo di formazione della terminologia marxista italiana. La vicinanza di
queste date indica che fino alla fine dell’Ottocento la contrapposizione
anarchici/marxisti era molto meno marcata di quanto non si creda oggi. Pietro Gori,
uno dei massimi leader anarchici dell’epoca, traduceva il Manifesto per usarlo
come strumento di propaganda anarchica. Anche qui non vorrei insistere troppo.
Mi sembra evidente che lo stereotipo della contrapposizione frontale sia
palesemente da abbandonare.
Di quel Marx a cui molti fra noi
erano abituati, rimane molto. Il testo (meglio, i testi) sono ancora quasi
tutti lì. La vera novità è che hanno preso la forma enigmatica del frammento.
Gli spunti si moltiplicano. Le ipotesi di lavoro e le soluzioni prendono nuove
forme. Non si è più di fronte al barbuto granitico personaggio delle piazze
sovietiche che presidiava alla purezza di una dottrina inattaccabile,
scientifica e assolutamente certa. Finito il dogmatismo rimane il Marx
insuperato critico del capitalismo e anche, paradossalmente, il teorico del
socialismo che ripudia anche l’idea di un "socialismo di Stato". La
mia netta impressione è che il meglio delle prossime letture debba ancora
venire. Il lavoro di Musto è un concreto passo in avanti in questa direzione.
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