lunedì 30 gennaio 2012

Sulla decomposizione del capitalismo


una risposta a Carlo, Sacchi e Pagliarone
Gianni De Bellis e Mario Fragnito
29 gennaio 2012

Innanzitutto riteniamo giuste le parole di elogio che Antonio Pagliarone (nello scritto: “Il capitalismo come corpo marcescente” del 3 gennaio 2012) rivolge ad Antonio Carlo per la mole interessante di dati contenuti nel suo lavoro (“Capitalismo 2011: Decomposizione in atto” scritto a fine 2011) e per il collegamento tra di essi; condividiamo anche molte delle critiche che egli rivolge a Carlo; però l’addebito che Pagliarone fa a Carlo di aver trascurato del tutto di accennare alla caduta tendenziale del saggio di profitto come causa principale della crisi non è completamente esatto. In realtà Carlo accenna, anche se di sfuggita, in modo velato, agli effetti del meccanismo della caduta tendenziale e alla conseguente sovrapproduzione quando parla dei miglioramenti tecnologici che in una fase di crisi non permetterebbero l’assorbimento della disoccupazione anche se incentivato da forme di sussidio date dallo Stato ai padroni.

Qualche stralcio dal suo lavoro:
…crisi di sovrapproduzione, in cui il potere d’acquisto dei salari cresce molto meno delle capacità produttive (NOTA NOSTRA: e, almeno in una prima fase, della stessa produzione) e di investimento per cui le merci stentano ad essere vendute, se non ricorrendo ad un crescente indebitamento […] quanto ai sostegni a chi assume si dimentica che essi non hanno più senso in un sistema in cui la produzione può crescere senza creare lavoro o quasi: con la tecnologia puoi risparmiare le assunzioni, e i relativi costi, per cui non significa niente proporti uno sconto del 30-40% sulle assunzioni stesse se puoi farne a meno. […] anche il governatore Visco in una recente intervista sulla piaga della disoccupazione giovanile ha rilevato che la disoccupazione è dovuta molto più all’uso di tecnologie moderne, ad alta intensità di capitale e ad alta produttività, che non alla globalizzazione...
Il problema innanzitutto è che questi sono solo cenni di sfuggita, mentre è troppo accentuata l’insistenza di Carlo, in tutto il suo scritto, sulla questione dell’evasione fiscale. Egli perciò lascia intendere che, risolvendo tale problema, il capitalismo risolverebbe la sua crisi; e che una lotta conseguente all’evasione permetterebbe di trovare le risorse per una redistribuzione dei redditi, che favorendo le classi inferiori rilancerebbe i consumi e riavvierebbe in questo modo l’economia. Come se la crisi fosse determinata esclusivamente o principalmente da una forma di sottoconsumo delle classi proletarie. Sappiamo per diretta conoscenza che non è questo il suo pensiero, e che egli non pensa affatto che il capitalismo, ammesso e non concesso che potesse lottare coerentemente contro l’evasione, potrebbe risolvere la sua crisi. Ma, chi non lo conosce, potrebbe evincere questo dal suo scritto.
A riprova di quanto affermiamo riportiamo alcuni suoi brani, nell’ordine, diffuso, di come egli li espone:
…Nulla di serio per il problema della fame e della povertà, che esigerebbe una lotta a fondo contro l’evasione fiscale […] è indubbio che la casa sia stata usata come bancomat per finanziare i consumi: i mutui edilizi […] erano solo una frazione dell’enorme debito utilizzato per sostenere i consumi…
…un gruppo di studio costituito presso il Ministero dell’Economia e coordinato dal presidente dell’Istat, ha stabilito che il reddito occultato è pari al 17,5% del PIL […] lavoratori autonomi e imprenditori evadono nel 56,3% dei casi, mentre i proprietari di case nell’83,7% dei casi, quanto ai pensionati pagano il 7,7% in più del dovuto. Geograficamente l’evasione si distribuisce per il 14,5% del reddito dichiarato al nord, per il 17,4% al centro, e per il 7,9% al sud, ma queste percentuali crescono al 38% per i lavoratori autonomi e gli imprenditori. Per anni abbiamo sentito dire che l’evasione si distribuisce per tutte le classi e che al sud si evade di più, adesso fonti quanto mai ufficiali ci dicono che queste tesi sono delle colossali balle…
…Tornando all’evasione, che per le fonti ufficiali sarebbe solo il 17,5% del PIL, mentre per altri si arriverebbe al 35%, mi sembra evidente che solo riducendo della metà il suo importo non sarebbero state necessarie le manovre lacrime e sangue degli ultimi 12 anni […] non solo non sarebbero state necessarie le manovre lacrime e sangue ma avremmo avuto risorse per sostenere lo sviluppo evitando il ristagno strisciante dell’economia…
…Nell’ambito della classe dominante evadono tutti o quasi: esistono 800 mila S.p.A. o srl in Italia e l’80% delle stesse hanno bilanci in parità, in rosso o con tenui attivi, dovrebbero fallire ma, forse per l’intervento di S. Gennaro, continuano ad operare. Quanto alle grandi imprese e alle grandi banche oltre la metà di esse hanno sede in un paradiso fiscale...
…situazione di oggettiva tolleranza e benevolenza verso l’evasione fiscale. Questo è uno Stato “forte con i deboli e debole con i forti” come diceva Pietro Nenni (quando era ancora un dirigente della classe operaia), io direi più semplicemente che è uno Stato sfacciatamente classista.
Per quanto le cose che dice siano vere ed interessanti, ci sembra più che evidente l’insistenza continua sul tema dell’evasione fiscale, nettamente più presente di qualsiasi altro tema contenuto nel lavoro, che può appunto portare il lettore a pensare che risolvendo tale problema, il capitalismo potrebbe risolvere la sua crisi.
Inoltre ci sembra superflua l’ultima affermazione che lo stato (italiano) sia sfacciatamente classista; Engels già nell’ ”origine della famiglia…” ci insegna che allorché si svilupparono le classi nacque anche lo Stato a difesa degli interessi della classe dominante: un qualsiasi stato, quindi, è classista per definizione.
Una cosa importante da evidenziare a Carlo è che la spinta all’innovazione non agisce solo nelle crisi, ma sempre; anzi, a crisi già pienamente in atto, potrebbe addirittura venir meno o agire “a forti intermittenze”.
Cioè quando lui dice:
…crisi di sovrapproduzione, in cui il potere d’acquisto dei salari cresce molto meno delle capacità produttive […] la produzione può crescere senza creare lavoro o quasi: con la tecnologia puoi risparmiare le assunzioni, e i relativi costi…
vorremmo ricordargli:
1.     che il potere d’acquisto dei salari cresce molto meno delle capacità produttive, sempre, e non solo nelle crisi di sovrapproduzione
2.     che la produzione può crescere senza creare lavoro o quasi, o addirittura facendolo diminuire, sempre e non solo nelle crisi, a condizione che la composizione organica del capitale sia sufficientemente alta.
Restano quindi ancora da capire le cause delle crisi.
Non si capisce infatti nello scritto di Carlo il perché la politica di incentivazione al riassorbimento della disoccupazione attraverso l’introduzione di macchine con nuova tecnologia produttiva oggi è fallimentare ma in altri tempi ne ha permesso almeno un riassorbimento almeno parziale.
Evidentemente, a nostro parere, si tratta fasi diverse del ciclo di accumulazione capitalistica, fasi di cui Carlo sembra non tener conto.
Insomma egli fa di tutto pur di non introdurre apertamente nella sua analisi la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, legge che non lo ha mai convinto e che in altri lavori egli mette esplicitamente in dubbio.
Questa contraddizione si rileva in modo palese quando Carlo nota giustamente che i padroni piuttosto che investire in mezzi produttivi preferiscono, almeno nell’ultimo decennio, dirottare i capitali nella sfera speculativa finanziaria.
...crisi di sovrapproduzione […] per cui le merci stentano ad essere vendute […] l’investimento industriale non riesce ad assorbire la ricchezza prodotta, che rifluisce verso investimenti finanziari meramente speculativi in cui si ha solo trasferimento di soldi da una tasca all’altra senza che si crei nuova ricchezza effettiva...
Infatti rileva correttamente il fenomeno dell’espansione della speculazione, lo attribuisce giustamente alla sovrapproduzione di merci e capitali, ma del perché questa sovrapproduzione avviene, e avviene oggi e non in un altro periodo, non accenna e quindi non riesce a darne spiegazione.
In realtà, se non si parte dalla caduta, sul lungo periodo, del saggio di profitto e non si affronta la questione del valore, base di partenza per spiegarne le cause, i meccanismi di questa crisi strutturale ed epocale, a nostro parere appena cominciata, rimangono alquanto misteriosi; come misterioso rimane il perché si giunga ad un certo punto a tale grossa sovrapproduzione di merci e capitali, che poi spinge i capitali nella finanza. Carlo coglie in modo frammentario molti aspetti importanti di questa crisi ma non li collega in modo organico e complessivo proprio perché non parte dalla causa principale.
Anche lo scritto di Marco Sacchi (“Lotte operaie nella decomposizione del capitalismo” , scritto verso la fine del 2011), pur con un tono più ideologico, espone dati interessanti ed affronta in modo dettagliato il fenomeno della speculazione finanziaria. Egli non incorre, come Carlo, nell’accentuazione che sembra attribuire all’eliminazione dell’evasione fiscale il potere curativo della crisi, e individua giustamente nel fenomeno visualizzato dalla ormai secolare tendenza alla diminuzione del saggio generale di profitto la causa principale della crisi.
Anche Sacchi però ne espone una descrizione alquanto vaga e imprecisa quando afferma che:
In certo momento dello sviluppo capitalistico del secondo dopoguerra (dalla metà degli anni ‘70) è divenuto impossibile per i capitali più concentrati (quelli con una massa enorme di macchinari in rapporto ai lavoratori impiegati) investire ulteriormente ricavando un tasso di profitto superiore a quello ottenuto in precedenza con un capitale minore.
Da come è scritto questo pezzo, si potrebbe pensare che egli affermi che proprio per le imprese più innovative si abbassi il saggio di profitto… per fortuna egli non arriva ad affermare che il motivo è perché esse producono meno valore di quelle (dello stesso ramo produttivo) che non innovano. In tal caso sarebbe stato in buona compagnia di studiosi che, anch’essi, giustamente, individuano come causa principale della crisi la stessa di Sacchi, ma non sanno approfondirne l’analisi teorica.
Anche per loro è la diminuzione del saggio generale di profitto (che, però, chissà perché avviene) che, su lunghi periodi, porta ad una situazione in cui i mercati delle merci si saturano sempre più (però chissà perché: nessuno ne da convincenti spiegazioni) ed i capitali, trovando profitti sempre meno soddisfacenti nella sfera produttiva, da un certo punto in poi si riversano sempre più in quella speculativa.
Certo Sacchi ed altri studiosi sembrano un passo avanti rispetto a Carlo per il quale questa diminuzione del saggio o non avviene come descrive Marx o non comporta nulla di così catastrofico. Ma almeno lui, coerentemente, non tiene conto di un fenomeno di cui non è convinto e che non capisce, anzi ha più volte scritto e detto che, riguardo all’importanza che dà Marx a tale fenomeno, egli non si sente marxista. Gli altri giurano, invece, che quello è il fenomeno determinante ma non sanno assolutamente spiegare perché avviene questa provvidenziale (per i rivoluzionari) diminuzione del saggio generale di profitto, né del perché essa porti ad un certo punto ad una gravissima crisi di sovrapproduzione. Ci sembra poco, come motivazione, il fatto, per noi certamente vero, che Marx fosse convinto che ci fosse tale tendenza e tali conseguenze.
Comunque, senz’altro apprezziamo il lavoro di coloro che hanno raccolto i dati a livello mondiale ed elaborato le statistiche a dimostrazione sperimentale della diminuzione nel lungo periodo – decenni e secoli – di tale saggio generale. Ma dimostrare sperimentalmente che il fatto è vero, anche se è molto importante, non vuol dire certo averlo spiegato teoricamente.
Il fatto è che anche quella di Marx era solo un’ intuizione, ed un inizio di elaborazione e di spiegazione teorica (sviluppate in particolare nel terzo libro del Capitale), sulla strada giusta, di un fenomeno sottostante di fatto molto complesso. Proprio per questo, purtroppo, tale fenomeno fu realmente approfondito in seguito, dopo Marx stesso, da ben pochi marxisti. Uno forse l’unico del secolo scorso, è stato a nostro parere l’ebreo polacco Henryk Grossman, soprattutto (ma non solo) con la sua opera “L’accumulazione e il crollo del capitalismo” scritta prima del 1929 e pubblicata proprio in quell’anno, che invito tutti i compagni a cercare di studiare, anche se non è affatto facile, meglio di Giussani. Quest’ultimo ha almeno il merito di aver preso in considerazione l’opera di Grossman, pur non essendo riuscito a coglierne, secondo noi, i punti essenziali (e proprio per questo, di conseguenza, non riesce a cogliere i meccanismi profondi che si manifestano sia con la tendenza alla diminuzione del saggio generale di profitto che col rallentamento dell’accumulazione; ci riserveremo di commentare il suo ultimo, recente scritto “La crisi e il saggio di profitto”  in un nostro successivo lavoro).
E’ proprio per questa complessità che dopo Grossman quasi nessuno ha tentato, successivamente, partendo da Marx e da lui, di comprendere meglio il fenomeno e di andare oltre questi giganti; per questo non c’è molto da prendersela né con Carlo né con Sacchi né con altri per le loro incongruenze …fanno quel che possono, c’è almeno da lodarli per l’impegno profuso.
Nemmeno noi perciò, almeno in questo scritto, possiamo e vogliamo affrontare in dettaglio la questione, occorrendo per essa ben altro spazio ed energie; ma vogliamo almeno cercare di descrivere il fenomeno a parole, schematicamente, ed evidenziare alcuni errori dei fautori di tale – pur giusta – motivazione della crisi.
Iniziamo quindi qui ad esporre la nostra descrizione, scusandoci in anticipo per l’eccessivo, ma inevitabile, schematismo.

L’ACCUMULAZIONE DEL CAPITALE E LA DIMINUZIONE TENDENZIALE DEL SAGGIO GENERALE DI PROFITTO
Nel meccanismo di accumulazione è fondamentale la tendenza all’innovazione: è l’unico modo di estrazione di plusvalore che sembra non avere limiti oggettivi; essa, come già detto, non è presente solo nelle crisi ma sempre, regolarmente, anche se, più si è in difficoltà ad ottenere profitti e più si è spinti ad innovare per avere poi profitti più alti.
In un qualsiasi ramo produttivo, e quindi per tutti i rami, quello che succede è che, in un primo tempo, le aziende che innovano riescono all’immediato ad ottenere davvero profitti più alti (e fin qui ci arrivano in molti, intuitivamente e praticamente anche i padroni borghesi, anzi…); ma ciò spinge anche le altre aziende a cercare quanto prima di innovare per non andare in difficoltà; di solito una parte di esse ci riesce e una parte di esse chiude; per quelle che si adeguano e anche per le innovatrici, dopo che l’innovazione si è ormai diffusa (e quindi non è più, ormai, innovazione), risulta più elevata la composizione organica del capitale e il saggio di sfruttamento della forza-lavoro, mentre il saggio di profitto risulta diminuito (e già per spiegare rigorosamente questi fenomeni di breve-medio periodo ci sono grosse difficoltà …ma così avviene nella realtà). Ma proseguiamo:
da qui un rinnovato bisogno per tutte le aziende rimaste sul mercato di tornare ad innovare per far rialzare il loro individuale saggio di profitto. Ricomincia così un nuovo ciclo di innovazione: le prime aziende che innovano avranno, per un certo periodo, davvero profitti più alti di prima… ma ciò fino a quando non innovano di nuovo anche le altre… e così anche il nuovo ciclo chiude … per poi tornare a si ripetersi…
La cosa più importante da capire qui è che, per il succedersi continuo di tutti questi cicli, condizione indispensabile perché almeno alcuni dei capitali possano risollevare almeno periodicamente e temporaneamente i loro profitti, ad ogni ciclo devono succedere due cose:
1.     l’aumento di produttività deve oggettivamente portare ad un aumento della quantità di merci prodotte e portate sul mercato; aumento che, anche nelle fasi in cui la popolazione lavorativa cresce, è sempre molto più veloce di tale crescita
2.     tutta questa aumentata quantità di merci deve davvero essere venduta sul mercato, altrimenti non si realizza valore e non si fanno profitti, e non si può reinvestire per ricominciare un nuovo ciclo produttivo.
Ma, anche se la popolazione lavorativa cresce, non cresce mai con la stessa velocità della quantità di merci immesse sul mercato, e prima o poi si dovrà incorrere a crescenti difficoltà di vendita.
Come si vede da questa breve descrizione, la crisi di sovrapproduzione è già insita nel processo ciclico di accumulazione, anzi, più, ciclo dopo ciclo, si abbassa il saggio medio di profitto, più, mediamente, la spinta ad innovare sarà forte, più aumenterà, in maniera esponenziale, la quantità di merci immesse sul mercato (a fronte di un monte salari che in un primo tempo tenderà si ad aumentare, ma molto meno, poi a stagnare e poi a decrescere…) più aumenteranno le difficoltà a vendere tutte le merci prodotte …fino alla saturazione dei mercati ed al conseguente riflusso di capitali nella sfera finanziaria speculativa.
Una cosa da sottolineare nella “nostra” descrizione è proprio questo aumento esponenziale della quantità di merci immesse sul mercato ad ogni ciclo, cioè della massa di valore d’uso prodotta e poi messa in vendita.
Infatti, se io ad es. raddoppio la produttività e produco quindi una qualsiasi merce nella metà del tempo di prima, essa, come valore unitario (numero di ore medie sociali impiegate a produrne una sua unità) si dimezzerà, (come anche per tutte le merci dello stesso tipo presenti nello stesso momento sul mercato; in questo Marx è chiarissimo e ne riporteremo qui dei brani). Quindi, per produrre lo stesso valore di prima l’azienda, di tale merce, deve produrne un numero doppio…ma se vuole avere più profitto di prima deve produrne più del doppio; e così prima o poi tenderanno a fare anche altre aziende che restano sul mercato. Però il potere d’acquisto dei lavoratori non può aumentare con quel ritmo e il potere di consumo dei ricchi, pur enorme, è fisicamente limitato (non si possono mangiare dieci prosciutti al giorno solo perché li si può comprare… e poi, se sperpero non reinvesto…); infine, se si affievolisce la vendita di prodotti di consumo, si affievolisce prima o poi anche la spinta a produrre mezzi di produzione. E quindi, come diceva Amadeo Bordiga, vi sarà “il vulcano della produzione” che prima o poi “si arena nella palude del mercato”.
Dopo questa sommaria descrizione generale di lungo periodo, andiamo ora ad indagare più in dettaglio cosa succede nel breve periodo, cioè nella fase del ciclo in cui solo pochi innovano; e cercheremo di illustrare perché, dopo che l’innovazione si è diffusa, il saggio di profitto medio si abbassa a livelli inferiori di prima.
Supponiamo, per semplicità, di produrre tavoli, tutti uguali.
Supponiamo che, mediamente, le imprese produttrici impieghino un ora di lavoro, complessivamente, per produrre un tavolo. Allora il valore di ogni tavolo è di un’ora (supponiamo che ad un ora di lavoro corrispondano 10 euro) … da qualche parte lo si venderà 8 euro, da qualche parte 12 euro, quindi il suo prezzo, su qualsiasi mercato, si aggirerà intorno ai 10 euro, cioè intorno al valore.
Se ora alcune imprese innovano e ad es. raddoppiano la produttività, esse impiegheranno mezz’ora per produrre un tavolo, ma lo venderanno sempre intorno a 10 euro. In un giorno ceteris paribus, produrranno il doppio dei tavoli di prima e vendendoli raddoppieranno gli incassi.
Poiché sono ancora poche, in questa fase, le imprese che hanno ammodernato, il tempo medio di lavoro per un tavolo si può supporre sia rimasto circa un’ora ed il suo valore circa 10 euro. Se le imprese innovatrici hanno raddoppiato il numero di tavoli, esse, di fatto, producono giornalmente il doppio del valore d’uso di prima, ma, circa, anche del valore, e lo realizzano vendendolo: esse con meno ore di lavoro producono più valore delle imprese ancora arretrate che invece, con più operai e più ore di lavoro producono giornalmente lo stesso valore di prima, anzi un poco meno.
In una fase leggermente successiva, supponiamo che un numero sensibile di imprese ammodernino, per cui il tempo medio di lavoro per produrre un tavolo si riduce sensibilmente, ad es. a 45 minuti.
Ora il valore di un tavolo corrisponderà non più a 10 euro ma a 7,5 euro. Quindi le imprese che hanno una produttività doppia di prima, producono giornalmente il doppio del valore d’uso di prima, ma non più il doppio del valore, bensì “solo” il 2per3/4=1,5 cioè una volta e mezza il valore di prima.
Le imprese che invece sono restate alla produttività di prima senza innovare, producono giornalmente lo stesso valore d’uso di prima, lo stesso numero tavoli, ma poiché ogni tavolo ora vale i ¾ di prima, producono un valore minore di prima, pari ai ¾ di prima.
Come si vede è un meccanismo impersonale quello che agisce e che fa decrescere il valore prodotto e quindi anche i profitti (anche se vendono tutto il prodotto) delle imprese che non innovano; non è affatto vero, come dice qualche pur molto rispettabile compagno studioso, che le imprese a più alta tecnologia sottraggono, rubano, una parte del valore prodotto dalle imprese a più bassa tecnologia e per questo realizzano profitti più alti. La comprensione di questo punto di partenza è centrale se vogliamo davvero studiare e comprendere il fenomeno della diminuzione tendenziale del saggio generale di profitto.
Rispetto e questo “nostro” ragionamento logico di breve periodo, noi non ci siamo inventati nulla, infatti possiamo citare a sostegno Marx nella sua polemica contro Proudhon, e in altri brani.
Eccone alcuni:
<<Il valore di una merce è certo determinato dalla quantità del lavoro in essa contenuto, ma tale quantità è a sua volta determinata socialmente. Se è cambiato il tempo di lavoro richiesto socialmente per la produzione di quella data quantità - e nei raccolti sfavorevoli la stessa quantità di cotone, p. es., rappresenta una quantità di lavoro maggiore che non nei raccolti favorevoli - si ha una reazione sulla vecchia merce che vale sempre e soltanto come unico esemplare della propria specie, il cui valore viene misurato sempre per mezzo del lavoro socialmente necessario, cioè necessario sempre, anche nelle condizioni sociali presenti.>> Capitale, libro I, cap 6, pag 243. (Editori Riuniti, VIII edizione, I ristampa, maggio 1977)
E ancora:
“E’ importante insistere su questo punto, che cioè a determinare il valore non è il tempo in cui la cosa è stata prodotta, bensì il minimo di tempo in cui essa è suscettibile di essere prodotta, minimo che viene rivelato appunto dalla concorrenza. Supponete per un istante che non esista più la concorrenza, e che quindi non esista più alcun mezzo per constatare il minimo di lavoro necessario alla produzione di una derrata; che accadrà? Sarà sufficiente impiegare nella produzione di un oggetto sei ore di lavoro per essere in diritto, secondo il signor Proudhon, di esigere in cambio il sestuplo di colui che per la produzione del medesimo oggetto abbia impiegato solo un’ora.” (Marx, Miseria della filosofia, Editori riuniti, III edizione, II ristampa, marzo 1976, pag58)
E, riferito in particolare alla perdita di valore dei mezzi di produzione obsoleti:
<< A quanto detto occorre aggiungere che dopo l’introduzione di una nuova macchina cominciano innovazioni dietro innovazioni. Pertanto, in permanenza, una gran parte delle vecchie macchine o in qualche misura si deprezza o diventa del tutto inservibile prima che termini il suo ciclo oppure prima che il suo valore si trasferisca nel valore delle merci. [ …]  tanto maggiore è il rischio di cui sopra e tanto maggiore la possibilità del capitalista [ … ] d’introdurre una nuova macchina perfezionata e vendere a buon mercato la vecchia, la quale può ancora essere impiegata con utilità da un altro capitalista […. ]. >> Per la  critica dell’economia politica p. 36. In Marxiana 2. Bimestrale anno I n. 2  ottobre 1976.
Potremmo aggiungere tante altre citazioni, sia di Marx che di altri, in linea con queste, ma per ora basta.
Se fosse come sosteneva Proudhon, paradossalmente, un’azienda vecchia, con bassissima tecnologia e composizione organica, che produce merci qualitativamente scadenti impiegando molti operai e quindi molte ore di lavoro, dovrebbe essere il non plus ultra nella produzione di valore; nella realtà invece spesso vende poco o non vende proprio nulla perché le sue merci sono ormai fuori mercato, quindi potrebbe non fare nemmeno un euro di profitto e non avere quindi nemmeno un euro di capitale monetario con cui riavviare il ciclo successivo…se così succede non accumula più capitale, anzi perde quello che già aveva, e quindi il valore effettivamente prodotto e quindi effettivamente riutilizzabile in un successivo ciclo di produzione, da tale azienda, è pari a zero!
Questo perché il valore è una grandezza essenzialmente sociale, che si stabilisce con la concorrenza tra capitali, e non è una grandezza individuale.
Perché insistiamo su questo? Cosa c’entra col nostro discorso?
Il fatto è che molte aziende dell’URSS e dei paesi dell’est producevano prodotti di bassa qualità (quindi, secondo noi… e Marx, poco valore), riuscivano tuttavia a venderli perché il mercato del COMECON era un mercato praticamente chiuso alle merci occidentali Tuttavia questo tipo di economia non poteva essere criticato perché, a dire di molti compagni (cosa peggiore, spesso in buona fede) lì si stava costruendo il socialismo; e ancora oggi molti sono ancora convinti, come i compagni della Rete dei Comunisti, che fino all’89 (lo affermano anche in un loro lavoro) pur tra tante difficoltà e contraddizioni. La direzione che l’URSS aveva preso era quella della costruzione del socialismo; che, a detta di Peppone Stalin era superiore come capacità di sviluppo, al capitalismo occidentale …ma poi questo cattivo, ma più efficiente e produttore di merci qualitativamente superiori, capitalismo ha messo i bastoni tra le ruote…
Insomma, c’è forse un’inconscia reticenza in compagni di formazione stalinista, anche quando si ritengono dei sinceri rivoluzionari, e non si ritengono stalinisti, a riconoscere che le imprese russe producevano merci scadenti e perciò di bassissimo valore …e che, tra l’altro, proprio per questo quando i mercati dell’est hanno incominciato, a partire dalla fine degli anni ’60, ad aprirsi ai prodotti occidentali grazie anche alla politica di Ostpolitik inaugurata dalla Germania Federale, sono andate gradualmente in crisi. I cittadini dell’est Europa, finalmente liberi di scegliere, non compravano più le merci scadenti ed obsolete che erano costretti a comprare in precedenza e così è miseramente caduto il mito della pretesa superiorità dei paesi del “ socialismo reale “. E’ da notare che i paesi dell’Europa orientale sono stati capitalisticamente competitivi fino a quando dall’era della prevalenza dell’industria meccanica si è passati all’era della tecnologia elettronica ed informatica. Solo allora hanno incominciato a perdere in competività, dati gli scarsi investimenti attuati nella ricerca e nell’ammodernamento degli impianti per stare al passo con l’innovazione tecnologica. Ma questo era dovuto, principalmente, alla scarsa capacità di accumulazione di un sistema con un capitalismo di stato a bassa produttività. Bisogna anche notare che l’unificazione tedesca è stata determinata da un’ operazione di pura compravendita finanziaria, allorché il presidente ovest Helmut Kohl assicurò che il cambio tra il marco corrente nella Germania est e quello corrente nella Germania ovest sarebbe stato alla pari.
Per questo motivo, noi pensiamo, c’è a volte reticenza a riconoscere che le aziende che producono con tecnologia più bassa producono davvero meno valore e non è vero che ne vengano derubate da quelle ad alta tecnologia.
Purtroppo la grande maggioranza di compagni rivoluzionari (in Italia in particolare, ma non solo), hanno avuto una crescita partendo da una matrice stalinista: fino ad alcuni decenni fa, lo sappiamo, mettere in dubbio il socialismo sovietico era eresia, e i compagni che lo facevano poteva rischiare persino la sua sicurezza personale ad opera altri compagni.
Anche chi aderiva a gruppi o partitini a sinistra del PCI era spesso cresciuto in gioventù nella chiesa stalinista …e di solito andava ad aderire ad altre chiese;  anche chi proveniva da matrice troskista, e a volte anche bordighista, anche se aveva chiaro che quello sovietico non fosse mai stato socialismo, di solito non ne aveva una chiara visione alternativa, e spesso cadeva nello stalinismo almeno nei metodi e nei rapporti con altri compagni o gruppi. Ad esempio, spesso il dibattito politico non era (e non è tuttora) orientato alla scoperta della verità, della giusta strada, ma ad affermare le idee del proprio gruppo (a volte con mezzi degni della più becera competizione tra capitalisti) senza confrontarsi per mettere davvero alla prova le proprie convinzioni, per vedere davvero se si abbia ragione o torto su questioni su cui si hanno visioni diverse rispetto ad altri compagni o gruppi rivoluzionari.
Insomma, come quando, da bimbi si è educati alla religione, poi, da grandi, pur vedendo le sue falsità se ne è sempre, per qualche verso, condizionati, così anche molti bravi compagni rivoluzionari, indipendentemente da loro, sono condizionati dallo stalinismo pur criticandolo. Ne abbiamo avuto vari esempi anche noi stessi, ad es. nell’organizzazione (OCI) da cui siamo usciti una decina di anni fa …e non solo …un’amara realtà con cui dobbiamo essere coscienti di dover fare, tutti, i conti. Per questo pensiamo che nel dibattito, ogni sincero compagno rivoluzionario che interviene deve essere considerato degno di rispetto e trattato con rispetto …anche quando dice cose che non condividiamo …lo sviluppo collettivo di una discussione e di una riflessione aperta, sincera e tesa alla ricerca della verità, potrebbe suggerirci che ha ragione proprio lui e torto tutti gli altri; ma anche se così non fosse, l’esperienza ci dice che, senza compagni che hanno il coraggio di proporre tesi che poi si rivelano sbagliate, spesso non si riescono a trovare, dialetticamente, le soluzioni giuste.

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