venerdì 10 agosto 2012

Lavoro, democrazia, autogestione, Dino Erba


Letture di classe

Lavoro, democrazia, autogestione

«La ‘libertà di coalizione’, conquistata dalle organizzazioni proletarie nel passato e goduta attualmente, mostra la tendenza a trasformarsi  in una formale ‘costrizione alla coalizione’».
Karl Korsch, Legislazione del lavoro per i consigli aziendali, ora in Scritti politici, a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari, 1975.



Nel corso del Novecento, la triade lavoro-democrazia-autogestione è stata variamente declinata. L’esito è stato funzionale al modo di produzione capitalistico. E non poteva avvenire diversamente. Tuttavia, il processo che ha accompagnato e ha prodotto tale esito è stato assai accidentato e contraddittorio, con momenti che, seppur per lo spazio di un mattino, hanno fatto balenare una differente prospettiva.
Cruciali furono gli anni 1943-1945, in cui il movimento proletario italiano presenta un’esperienza emblematica.
Abitualmente, le vicende del movimento operaio organizzato italiano di quegli anni sono ricondotte a fattori internazionali, ovvero alla contrapposizione Usa-Ursss. Certamente lo furono, ma fino a un certo punto. Sottotraccia, ma neppure tanto, agivano tendenze che traevano origine e sostanza nelle precedenti vicende del movimento operaio e contadino del nostro Paese; erano tendenze di natura socialista, anarchica e cattolica, che, successivamente, si erano scontrate – e in alcuni casi incontrate – con il fascismo. Il fascismo marchiò, nel bene e nel male, un ventennio della vita sociale e politica delle classi subalterne italiane, con tratti destinati a sopravvivergli e a connotare, il nuovo sindacalismo.

Una tribolata transizione
Nel trentennio 1914-1945 aveva preso avvio il processo di integrazione della forza lavoro all’interno dello Stato capitalistico italiano, che aprì la strada a ciò che di lì a poco sarebbe avvenuto nei principali Paesi industrializzati, o in via di esserlo[1]. Per quanto fosse ricorsa a procedimenti coercitivi – prima con l’economia di guerra e poi con la dittatura –, l’integrazione italiana non fu priva di momenti di consenso che, nel mutato clima politico della Repubblica, potevano, e dovevano, assumere uno spazio maggiore, su basi democratiche. Il consenso, ovviamente, avrebbe potuto far meglio «digerire» ai proletari il pesante onere della ricostruzione economica. In questi frangenti, la transizione sindacale fu inevitabilmente travagliata in quanto, a parte i fattori contingenti (le difficoltà del dopo guerra), la struttura stessa del capitalismo italiano – e in particolare dopo il ventennio fascista – presentava, come presenta ancor oggi, aree assai evolute accanto ad altre di grande arretratezza, nonché la commistione di attività ibride con i conseguenti riflessi nella composizione della classe operaia, in cui fu  a lungo costante ( e in parte lo è ancora) la presenza di attività semi agricole e semi artigiane, in gran parte «sommerse».
Frutto di queste variegate esperienze e situazioni, fu l’organizzazione sindacale che prese piede verso la fine della guerra. Sacchetti ne ripercorre i momenti salienti, a partire dalla costituzione della Cgil «unitaria», per opera dei partiti di «massa» del Cln: Pci, Psiup e Dc (Patto di Roma, 3 giugno 1944). Nel giro di pochi mesi, questi partiti stroncarono il tentativo di ricostruire la Cgdl prefascista, attuato da ex sindacalisti aderenti alle posizioni della dissidenza comunista e socialista di sinistra (bordighisti e trotskisti, tra cui Enrico Russo e Nicola Di Bartolomeo), con l’appoggio di alcuni militanti vicini al PdA (in primis Dino Gentili). Ma non stroncarono l’orientamento classista che aveva ispirato questo tentativo e che si manifestò, inevitabilmente, nel nuovo sindacato, in particolare nella componente anarcosindacalista e nelle minoranze della sinistra socialista e comunista, che si opponevano al nuovo indirizzo nazionalista (con l’obiettivo della ricostruzione nazionale), impresso pesantemente dal Pci di Togliatti. Mentre queste ultime non riuscirono a dar sviluppo alle loro posizioni, gli anarchici che, dopo un’effimera ricostruzione dell’Usi[2], avevano scelto di aderire alla Cgil, svolsero un ruolo più pregante. Seppure non privo di contraddizioni e destinato anch’esso al minoritarismo, l’anarcosindacalismo ha espresso posizioni assai significative, per le implicazioni che ebbero negli ulteriori sviluppi delle lotte operaie, e soprattutto perché rivendicò il valore dell’azione diretta e si oppose al centralismo e alla forte impronta politica della Cgil.

Due figure emblematiche
Filo conduttore del libro di Sacchetti sono due figure emblematiche del movimento operaio italiano: Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil, e Attilio Sassi[3], storico dirigente della Federazione Italiana Minatori e Cavatori, che nella Cgil ebbe una posizione di rilievo.
Entrambi – Di Vittorio e Sassi –, nei primi anni del Novecento, maturarono le loro prime esperienze di lotta nell’anarcosindacalismo e parteciparono alla fondazione dell’Unione sindacale italiana (Usi), nel 1912. Diversa fu invece la loro successiva evoluzione politica.
Di Vittorio – che nel 1915 fu interventista[4] – dopo la guerra aderì al Psi, e, nel 1923, passò al Partito comunista, nel momento in cui questo partito stava imboccando quella via che dallo stalinismo lo avrebbe portato al nazional-comunismo di Togliatti, il cui corollario fu la concezione statalista del sindacato, comune a Mussolini e a Stalin.
Sassi, sempre in prima linea sul fronte delle lotte operaie, non si scostò mai dall’antagonismo tra lavoro e capitale, comunque esso si presentasse, nonché da una visione internazionalista.
La divaricazione politica che investì i due sindacalisti toccò in modo altrettanto divergente un punto cruciale, nonostante apparentemente fosse comune ad entrambi: l’autogestione.
Con Di Vittorio, il concetto di autogestione trascende nella logica produttivista – sottintendendo la cogestione –, che informò l’azione sindacale partecipazionista negli anni in cui Pci e Psiup furono al governo (1944-1947), in cui gli interessi operai furono subordinati o, nella migliore delle ipotesi, combinati a quelli della ricostruzione nazionale. Ma che si ripropose anche quando le sinistre ne furono estromesse; nel frattempo, la Dc aveva abbandonato la Cgil, per fondare la Cisl, cui fece seguito l’uscita della destra socialista di Giuseppe Saragat e dei repubblicani, che fondarono la Uil. Formalmente divise, le tre confederazioni erano unite nella sostanza, moderazione rivendicativa, contribuendo alla definizione di quella farraginosa struttura del salario che, arricchita da premi e incentivi, si trasformò in una molla poderosa per lo sfruttamento intensificato, continuativo e «volontario» dell’operaio[5]. Se alcuni piccoli strati, l’aristocrazia operaia, ebbero qualche modesto vantaggio salariale, la maggioranza degli operai visse a lungo ai limiti della sussistenza.
Punto culminante della strategia produttivista fu il Piano del Lavoro, che Di Vittorio presentò nel 1949 al secondo congresso della Cgil. La proposta – che formalmente non ebbe seguito – si iscriveva nella tattica della democrazia progressiva di Togliatti, la cui seconda versione fu, negli anni Sessanta e Settanta, la strategia basata sulle riforme di struttura. Nella migliore delle ipotesi, questa concezione intendeva riformare il capitalismo dall’interno, affidando ai lavoratori l’onore e l’onere della trasformazione produttiva, le cui direttrici di marcia sarebbero state comunque stabilite dall’azione politica parlamentare; in realtà, essa si tradusse in un accresciuto fardello, a tutto scapito dei lavoratori. E, nella successiva evoluzione del modo di produzione capitalistico – con i conseguenti mutamenti della composizione di classe – mal si incontrò (vedi piazza Statuto, 8 luglio 1962), con le spinte autonome di operai che subivano un’organizzazione del lavoro (fordismo) del tutto estranea a quella del vecchio operaio di mestiere, che conservava, e valorizzava, le sue specifiche «abilità» (skill), ed era quindi più sensibile ai richiami produttivistici, dal momento che credeva di padroneggiarli, e in parte ci riusciva.
Condizione, quest’ultima, che si rifletteva nella visione di Sassi, in cui l’autogestione, dalla forte connotazione classista e conflittuale, si coniugava appunto con l’intento di poter controllare la produzione, grazie alla conquista di spazi di autonomia operaia, all’interno della fabbrica, e dar quindi vita a un diverso modo di produzione. Concezione peraltro presente nel consiliarismo di Gramsci, che fu la versione moderata, o meglio «arretrata», di quanto stava allora maturando in Germania, come ben sottolineò Enzo Rutigliano[6].
Dall’autogestione al tradeunionismo, passando per la democrazia operaia
Comunque intesa e coniugata – nella versione conflittuale come in quella cogestionale – l’autogestione proponeva soluzioni che, in una fase di svolta e di mutamenti, sarebbero passate in secondo piano, sotto la spinta dello sviluppo e della riorganizzazione industriale, che l’Italia visse negli anni del boom economico. Per inciso, nelle fabbriche i tecnici stavano emergendo professionalmente, crescendo di numero, e, sostituendosi alla vecchia aristocrazia operaia, rivendicavano una migliore posizione nella gerarchia del lavoro. Di pari passo, la stragrande maggioranza degli impiegati perdeva privilegi – reali o presunti – e si avvicinava alla condizione operaia.
Per certi versi – e forse soprattutto nella versione operaista di Raniero Panzieri-«Quaderni Rossi», il «controllo operaio» –, l’autogestione rappresentò, suo malgrado, il background «democratico» della transizione verso un moderno sindacalismo, che meglio rispondesse alle nuove esigenze produttive. Transizione che inevitabilmente seppellì anche le residue illusioni di un ipotetico «sindacato di classe» (o «sindacato rosso»).
In quegli anni, in ambito sindacale si intrecciarono fattori di differente provenienza ideologica, comprese le elaborazioni del padronato illuminato (Adriano Olivetti); un aspetto importante svolse il solidarismo cristiano della Cisl (o meglio delle Acli) e, soprattutto, il ruolo che questo sindacato dava alle federazioni e alla contrattazione aziendale, trovando poi consenso anche da parte della Cgil, sulla via di rivedere l’indirizzo centralista. Nel corso degli anni Sessanta, le stesse esigenze dei lavoratori, dopo anni di «astinenza»[7], fecero sorgere un nuovo clima sindacale, favorendo l’unificazione delle tre confederazioni[8] e la nascita, poi, del Sindacato dei Consigli, che nel 1969 avrebbe seppellito le vecchie Commissioni Interne, dando spazio alla democrazia operaia.
Il punto culminante fu l’autunno caldo, che inaugurò la stagione del tradunionismo italiano, in cui la classe operaia cercò di recuperare, e in parte recuperò, il terreno perduto, non solo in termini salariali, ma soprattutto per quanto riguarda l’orario di lavoro che, malgrado il forte aumento della produttività, era rimasto invariato per almeno due decenni, anzi, aggravato dal costante ricorso agli straordinari[9].
Ma questa fu una breve stagione; fu presto raggelata dall’incombere di una nuova congiuntura economica, che poneva fine al lungo ciclo di accumulazione iniziato nel dopo guerra. Nuovi e spinosi problemi si sarebbero poi presentati.
E qui si ferma Sacchetti, dopo aver descritto i passaggi che hanno preceduto questo vero e proprio nodo storico. Descrizione puntuale e interessante, quella svolta da Sacchetti, che tuttavia dà adito a qualche incertezza interpretativa, poiché non sono espresse in modo esplicito quelle cause strutturali – l’evoluzione del processo di accumulazione capitalistico, in Italia e in Occidente –, che sono all’origine delle diverse, e a volte contrastanti, forme ed espressioni del sindacalismo italiano. E che non possono essere ricondotte alla mera organizzazione tecnica del lavoro, poiché anch’essa è frutto di qualche cosa di ben più profondo, che è in costante evoluzione, con bruschi, e a volte rovinosi, mutamenti di rotta.
Trascurare, senza definire, ciò che bolle nella pentola del capitale, favorisce una visione generica dei rapporti di produzione – come se il capitale fosse un perpetuum immobile, congenito alla società –, condannandoci a un’impotente coazione a ripetere. Come sta avvenendo da qualche anno a questa parte, svelando una profonda carenza teorica (nonché organizzativa) ad affrontare le conseguenze di una crisi sempre più devastante.

Dino Erba, Milano 5 luglio 2012.



* Giorgio Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti libertarie nel sindacalismo italiano (1944-1969), Aracne, Roma, 2012. Pp.372, 21 €.
[1] L’apologia del lavoro nonché della tecnica ebbe il suo exploit nei regimi totalitari, e forse più con il nazismo che con il nazional-comunismo staliniano; si diffuse poi nei regimi democratici attraverso il keynesismo, che ne rappresenta la forma storicamente più compiuta. In merito all’Italia, vedi Giorgio Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti libertarie nel sindacalismo italiano (1944-1969), Aracne, Roma, 2012.pp. 25-33.
[2] Nel 1950, di fronte alla persistente limitazione degli spazi di intervento, alcuni sindacalisti anarchici dettero vita all’Usi, la cui presenza restò tuttavia circoscritta ad alcune zone della Toscana, della Liguria e della Puglia. Cfr. Giorgio Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione, op. cit., pp. 126-127.
[3] Su Sassi, vedi: Tomaso Marabini, Giorgio Sacchetti, Roberto Zani, Attilio Sassi detto Bestione – Autobiografia di un sindacalista libertario, Zero in Condotta, Milano, 2008 (con CD).
[4] L’interventismo non fu l’unico neo di Di Vittorio: cfr. Franco Schirone (a cura di), Il mito dell’unità operaia e il «Pensiero» di Di Vittorio, «Autogestione», Primavera 1980, p. 71.
[5] Nel 1967 – due anni prima dell’autunno caldo –, gli infortuni sul lavoro erano cresciuti del 9% rispetto l’anno precedente e i morti dell’8%. «Gli straordinari prolungano il lavoro fino a 12 ore al giorno, vengono ritenuti troppo pesanti, insostenibili, ma altrettanto inevitabili per i bassi salari. Un lavoratore esplicitamente avverte che “limitare lo straordinario scatenerebbe il putiferio”». Giovanni Berlinguer, La salute nelle fabbriche, De Donato, Bari, 1969, p. 5 e p. 58.
[6] Enzo Rutigliano, La classe operaia come redentrice del lavoro nel Gramsci ordinovista, in Enzo Rutigliano, Lo sguardo dell’angelo. Su Walter Benjamin, Dedalo Libri, Bari, 1981, p. 87 e ss. Vedi anche: Giuseppe Andrea Manias, Antonio Gramsci e il movimento anarchico nel periodo de L’Ordine Nuovo. Seguito da Camillo Berneri tra Antonio Gramsci e Carlo Rosselli, Introduzione di Aldo Borghesi, pp. 44, Quaderni Pietro Tresso, n. 63, Firenze, dicembre 2007.
[7] Sulle lotte operaie degli anni Cinquanta e Sessanta in Italia, vedi: http://www.chicago86.org/.
[8] Oggi si stenta a crederlo, ma allora un composito fronte di estrema sinistra, che andava dagli internazionalisti di programma comunista ai filo cinesi,  osteggiò l’unificazione sindacale in nome di una presunta origine «rossa» della Cgil.
[9] A livello internazionale, la settimana lavorativa di 40 ore fu proposta a metà degli anni Trenta; in Italia i primi passi avvennero solo verso la fine degli anni Cinquanta in alcune grandi aziende, come Fiat e Olivetti, in cui si siglarono importanti accordi di riduzione dell’orario che aprirono la strada alle 40 ore di orario settimanale, con il sabato libero, che fu raggiunto nel contratto dei metalmeccanici privati nel 1970, seguito nel 1972 dal contratto dei siderurgici pubblici – con 39 ore settimanali –, e venne conquistato anche il diritto per tutti alle quattro settimane di ferie.

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