mercoledì 10 ottobre 2012

Il keynesismo della Corte dei Conti



Il keynesismo della Corte dei Conti
Antonio Pagliarone

Mi è capitato di leggere sul blog di sinistranet un articolo di Vladimiro Giacchè dal titolo “Le manovre tecniche hanno creato recessione” nel quale l’autore, utilizzando l’audizione della massima istituzione dello stato alla Commissione Bilancio, intende avanzare le responsabilità dell’attuale governo “tecnico” per la grave recessione in cui versa il paese delle anime belle. In sostanza Giacchè usa la Corte dei Conti per consigliare una inversione di rotta per il prossimo governo che dovrebbe, citando letteralmente la relazione, “rafforzare la strategia per la crescita, affidando ad essa obiettivi più ambiziosi di quelli finora adottati», e precisa – molto opportunamente – che «gli interventi per la crescita sono solo in parte riforme senza spesa» e che quindi serve «mobilitare risorse finanziarie».


In sostanza, dopo aver snocciolato qualche dato di dominio comune, l’autore sembra consigliare alla nuova amministrazione di intraprendere una fase di investimenti utili per neutralizzare la cosiddetta recessione in atto. Purtroppo Giacchè insiste nel non voler considerare la situazione economica attuale come una profonda Depressione ancora peggiore di quella degli anni 30. Una depressione che colpisce tutte le economie sviluppate, persino quelle tanto mitizzate in passato. L’autore è rimasto fermo nel considerare gli interventi di politica economica come risolutori di un fenomeno mai visto nella storia umana ossia “la dittatura della finanza”; una dittatura che si manifesta con l’imposizione di dinamiche speculative prodotte da una economia capitalistica in totale disfacimento da molti decenni. Una decomposizione che ha dei connotati diversi dall’implosione del modello sovietico caratterizzato da una economia di cartone, ma che alla fine porterà ad un inevitabile crash generalizzato. Purtroppo i cosiddetti “mercati” trattati come se fossero organismi viventi in grado di decidere qualcosa (maledizione al sociologismo italiano) non manifestano reazioni più o meno razionali alle iniziative totalmente fallimentari della governance ma sono essi stessi autoregolati da un fattore decisamente banale: il profitto. Se il capitale speculativo ha prodotto profitti negli ultimi decenni ebbene tali profitti sono stati riversati totalmente nella finanza che ingoia continuamente quelli realizzati nel settore produttivo. Purtroppo sono molti i testardi che non vogliono vedere la realtà e se la intortano illudendosi che si possa uscire da una malattia incurabile. Se la Corte dei Conti e con essa Giacchè prendessero in esame solo per un momento l’analisi marxiana si renderebbero conto che ahimè non esiste via d’uscita a tale situazione. Tutti i governi siano essi di destra, di sinistra o tecnici debbono sottostare a questa dittatura che non si esprime attraverso bande militarizzate di repressori ma da una spada di Damocle pronta a cadere sul sistema bancario e sulle imprese a causa dell’indebitamento. Ho provato a dimostrare empiricamente la condizione di devastazione economica nel mio “La più Grande Depressione della Storia” nel quale cercavo di fotografare una condizione generalizzata di crollo estremamente drammatico di tutti i fondamentali nei vari paesi. Purtroppo la tendenza al rifiuto dell’evidenza empirica porta molti intellettuali ad illudersi di poter consigliare governi di varia statura ad adottare politiche economiche adeguate. Sono illusioni perdute che dimostrano solamente che non esiste alcuna forza in grado di rappresentare veramente gli interessi dei lavoratori abbandonati a se stessi nella loro miseria di ogni giorni e purtroppo illusi di tornare ad un capitalismo che possa garantire loro il pane quotidiano. Per finire vorrei citare una vecchia frase di Marx tanto citato da molti (ma in realtà frullato nel keynesismo) “Se i democratici esigono la regolazione del debito pubblico, gli operai devono esigere la bancarotta dello Stato” (Primo Indirizzo al Comitato della Lega dei Comunisti nel 1850)

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