giovedì 31 gennaio 2013

Il cavalier Berlusca e il cavalier Benito



Il cavalier Berlusca e il cavalier Benito

… e per fortuna che Silvio c’è … con le buone cose del duce …
Ma nessuno è perfetto!

I
n tutte le buone famiglie c’è sempre un parente un po’ fuori di testa o che alza un po’ il gomito, e che, in certe occasioni, si lascia andare, dicendo verità imbarazzanti. Svelando, magari, la strana origine delle ricchezze di famiglia.
Anche in quella grande famiglia che è la borghesia italiana c’è un figliolo trasgressivo, il Berlusca. È di recente acquisizione, ma forse proprio per questo, per farsi bello, a volte dice verità un po’ scomode. Ma tacitamente condivise nei salotti buoni. Come è avvenuto domenica 27 gennaio 2013, a Milano, alla Stazione Centrale, al famigerato binario 21. Dove partivano i carri ricolmi di ebrei destinati ai campi di sterminio.
Il Berlusca giulivo ha ricordato che Mussolini, antisemitismo a parte (ci mancherebbe! Nessuno è perfetto), di cose buone ne fece.

Una voce fuori dal coro?
No!
Il Berlusca ha detto quello che tutti i buoni borghesi italiani pensano.
Ma non lo dicono.
Per consolidata ipocrisia.
Do you remember Montanelli?
Ma tra loro, quando sentono parlare di fascismo, si strizzano l’occhio. Ricordando che Mussolini riportò l’ordine.
Per prima cosa, mazzolò operai, braccianti e contadini. Poi mise in galera e mandò in esilio comunisti, anarchici e sovversivi vari. Qualcuno, per stare più tranquillo, lo mandò direttamente al creatore.
Di fronte a questo bel risultato, molti democratici non esitarono a indossare la camicia nera, o perlomeno tennero bordone a Mussolini. Accettando, obtorto collo, onori e prebende. Furono senatori del regno (fascista) Benedetto Croce, il «filosofo della libertà», e Luigi Einaudi, l’«economista della libertà» di mercato e primo presidente della Repubblica nata dalla Resistenza. Il secondo presidente, Giovanni Gronchi, fu invece ministro nel primo governo Mussolini. Dopo la Marcia su Roma.
Gli industriali, tutti, furono col fascio, da Agnelli a Pirelli, tanto per far nomi ancora oggi noti. E tutti, politicanti e padroni, al momento giusto seppero abbandonare la nave fascista che affondava, scappando in Svizzera, in Vaticano o in altri Paradisi antifascisti. Ma sempre rimpiangendo il Ventennio, quando i treni arrivavano in orario, di notte si dormiva con la porta aperta e i lavoratori facevano il loro dovere, senza rompere i coglioni.
Dopo il bastone, arrivò la carota. La previdenza sociale, le assicurazioni sul lavoro, le case popolari, il dopo-lavoro, l’opera maternità e infanzia, con le colonie per fanciulli e fanciulle, ecc. ecc. in poche parole il welfare state del fascio. Un modello che Roosevelt studiò per il suo New Deal e i discepoli italici di Stalin, Togliatti & Co., accolsero con interesse. Tanto da rivolgere, nel 1936, un appello alle camicie nere. Forse si lasciarono prendere troppo la mano. I tempi non erano maturi per quelle belle giravolte. Ci avrebbe pensato poi il Palmiro, giusto dieci anni dopo, amnistiando i fascisti e mandando in galera i partigiani.
Il welfare fascista (come quello democratico) aveva però un prezzo. La guerra.
Ci fu la guerra d’Etiopia, con i suoi 700mila morti ammazzati, ma tanto erano negri, e pochi si commossero, ieri come oggi. Ci fu poi l’intervento in Spagna, per sostenere il sanguinario Franco. Oltre centomila «volontari» italiani furono inviati in terra di Spagna a combattere i «rossi». Con aerei e carri armati, dettero la stura a orribili mattanze, in nome del fascio e della croce.
Nel 1938, arrivarono poi le infami leggi razziali. Volute dal Duce per far piacere all’alleato tedesco, si disse, poi. Ma allora furono sottoscritte da un ampio stuolo di professori universitari (tra cui il futuro leader democristiano Amintore Fanfani, tanto per fare un nome), scienziati e intellettuali più o meo organici (che poi passarono al partitone di Togliatti), militari e politicanti vari.
Le leggi razziste furon ben viste da molti bravi bottegai, che colsero la palla al balzo per eliminare la concorrenza degli ebreucci. E tra la piccola borghesia, ci fu chi non esitò ad approfittare, mettendo le mani sui beni degli ebrei, con ricatti ed estorsioni, e qualche sporca delazioni. Sempre all’ombra del fascio e della croce. Piccole cose, certo, rispetto a quanto avvenne in Germania, in Polonia, in altri Paesi dell’Europa orientale, e anche in Francia. Non per questo, son cose meno disgustose, come ci narra un grande Totò nel tragico film «Dov’è la libertà».
Certo, la maggior parte degli italiani non fu antisemita. Molti, però, non fecero altro che girar la testa dall’altra parte, fingendo di non vedere. Nell’illusione che l’uomo della provvidenza provvedesse.
Ma poi furono costretti a vedere, quando le bombe cominciarono a cadere sulle loro teste. E con gli scarni benefici del fascio, crollarono anche le illusioni. Era la guerra, voluta dal Duce e dai padroni. Le spese le pagò il popolo, con lutti e distruzioni. Le cose andarono molto meglio per i padroni, e anche per i loro reggicoda politici. Passata la bufera, costoro seppero ricrearsi una verginità. E quel Ventennio, preferirono rimuoverlo, divenendo, a parole, i più accaniti antifascisti, pronti a declamare la carta costituzionale (più bella del mondo …) a ogni piè sospinto.
Salvo …
Questi antifascisti, di destra come di sinistra, non sono altro che nazionalisti. In nome della Patria (e del profitto), sono pronti a fare le peggiori porcherie. Le hanno fatte, le fanno e le faranno. E poi, lo sappiamo bene, quando i borghesi parlano di antifascismo, preparano solo mazzate e galera per i proletari. Sarebbe ora di mandarli a quel paese.
Dino Erba, Milano, 30 gennaio 2013.

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