LETTURE DI CLASSE
GIORGIO BONA, Sangue di tutti noi,
Scritturapura, Asti, 2012, pp. 164, €
15,00.
L’ASSASSINIO DI MARIO ACQUAVIVA
11 luglio 1945, a Casale Monferrato, un
killer del PCI di
Togliatti
assassinò Mario Acquaviva, comunista internazionalista.
Tutti i partiti democratici del CLN stesero una pesante coltre di silenzio
sull’episodio, rendendosi sodali di un sacrificio cruento che consacrava la
Repubblica democratica nata dalla Resistenza.
Con
l’assassinio di Mario Acquaviva, il PCI
eliminava una forte voce di contrasto al suo progetto di
normalizzazione della società italiana post bellica.
Il
progetto togliattiano era fondato sull’esigenza di non turbare i delicati
equilibri internazionali (la contrapposizione USA-URSS) che, in Italia, si concretizzava in
una prassi politica moderata, in nome della conciliazione nazionale, con
l’obiettivo della ricostruzione, cui veniva subordinata ogni altra prospettiva
di sviluppo sociale e democratico, anche moderatamente riformista. Dopo patti
del lavoro, riforme di strutture, compromessi storici e inciucci vari, i frutti
marci sono sotto i nostri occhi, La
linea politica del PCI era
assolutamente retriva (per non dire reazionaria) ed esigeva la drastica
eliminazione di ogni voce di dissenso. Durante la Resistenza, il PCI non esitò ad assassinare un altro
internazionalista, Fausto
Atti, il dissidente Temistocle Vaccarella e probabilmente anche altri. Il
socialista di sinistra Lelio Basso si salvò per il rotto della cuffia. Alcuni
«sparirono» in seguito a delazioni, che li consegnarono ai nazifascisti.
Per
quanto ci risulta, dopo il 25 aprile 1945, l’assassinio politico di marca
togliattiana colpì solo Mario Acquaviva, anche se dubbi ci sono sulla morte,
all’inizio del 1947, di Aldo Gironda, di Borgo San Martino, in provincia di
Alessandria. Nel dopoguerra, il PCI
fu in grado di emarginare le voci di dissenso, ricorrendo
solo occasionalmente alla violenza e alle calunnie, come negli anni Settanta,
quando le agitazioni sociali iniziarono a creargli qualche problema. Per quasi
mezzo secolo, il PCI ha
disposto di un apparato ramificato nei vari settori delle istituzioni e della
società civile che, per molti proletari, costituiva un punto di riferimento per
trovare lavoro e per molte altre necessità esistenziali, dalla casa al tempo
libero. L’alternativa era la parrocchia o l’emigrazione. Il prezzo da pagare
era il conformismo alla linea generale del partito, una medicina amara che
spesso fu maldigerita. Le conseguenze furono a volte tragiche, come il suicidio
di Francesca Spada, cui Ermanno Rea ha dedicato Mistero napoletano.
Vita
e passione di un comunista negli anni della guerra fredda.
Ma chissà quanti altri militanti furono costretti alla «morte civile», per la
maggior gloria del Partito, della Patria e del Capitale. Costoro chiedono
ancora di essere ricordati. Di sicuro, chi ha seminato vento non potrà che
raccogliere tempesta.
Non
stupisce allora che il sangue di Mario Acquaviva sia riaffiorato nel romanzo di
Giorgio Bona. È sangue di tutti noi. Sangue che riemerge nella
memoria dei vinti, dei proletari, che dalla Repubblica nata dalla
Resistenza hanno avuto solo gli oneri, e non certo gli
onori, con l’amarezza di tante speranze deluse.
Giorgio
Bona ha scritto un romanzo che è la cronaca di una
morte annunciata. Lo stile narrativo è apparentemente intimistico, scandito com’è
dal rapporto tra Mario e la moglie Tina. Attorno a loro si dipana la grande
storia, vissuta con una passione rivoluzionaria,
tutt’altro
che sopita dopo il ventennio fascista e gli orrori della guerra. Filo
conduttore è il tentativo di ricostruire un’organizzazione proletaria
internazionalista,
cui
si contrappone il PCI di
Togliatti con una fitta trama di calunnie, di ricatti e violenze. Una trama che
semina dissidi e incertezze tra gli stessi comunisti. E Mario è solo, con i suoi dubbi, di fronte a una
realtà in precipitosa evoluzione. La narrazione di Bona è pervasa da un
tragico senso di solitudine, che pone al centro il ruolo cruciale delle scelte
individuali. Scelte
che,
in particolari svolti della storia, non possono essere demandate ai «comitati
centrali». E ancor meno possono essere rimandate, in attesa di tempi migliori,
quando le masse si «riprenderanno»…
DINO ERBA,
Milano, gennaio 2013
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