I rapporti sociali comunisti
«Lutte de Classe » Settembre Ottobre 1974
La questione dei rapporti sociali comunisti è al centro di tutte le analisi presentate già da molti anni in « Lutte de classe», che si trattasse di lotte operaie dell'evoluzione del modo di produzione capitalista o del problema dell'intervento rivoluzionario[1]. Facendo il punto su questo problema, cercheremo prima di tutto di formulare il più chiaramente possibile quello che è, secondo noi, il contenuto implicito dell'attività della classe proletaria e di trarre da ciò dei criteri per la valutazione dell'attività di quelli che si richiamano al comunismo. Data l'ampiezza del problema, non sarà possibile, qui, che sviluppare il problema a grandi linee e ad un livello di astrazione abbastanza elevato.
Partendo dalla differenza basilare fra rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria, ci riferiremo ai rapporti che uniscono la resistenza contro lo sfruttamento capitalista al processo rivoluzionario, cercheremo di identificare le principali manifestazioni della maturazione rivoluzionaria del proletariato e ne tireremo delle conclusioni sugli obbiettivi e sulle modalità dell'intervento militante.
rivoluzione borghese e rivoluzione proletaria
Fra il processo della rivoluzione borghese e quello della rivoluzione proletaria esiste una differenza fondamentale: mentre la borghesia ha conquistato una base economica all'interno della società feudale, ciò non sarà possibile per il proletariato all'interno della società capitalista.
In effetti il modo di produzione feudale non implica l'esproprio di tutte le classi che non fanno parte dell'aristocrazia feudale. In certi limiti, per la verità molto ristretti, tollera lo sviluppo della piccola produzione mercantile ed anche l'accumulazione del capitale commerciale, finanziario e magari industriale. La futura classe capitalista può quindi sistemare i rapporti di produzione che le sono propri, negli interstizi della società feudale e accrescere progressivamente il suo peso economico fino a diventare tanto forte da poter superare con la violenza
gli ostacoli che impediscono il suo sviluppo[2] .
È escluso, al contrario, che i rapporti di produzione comunisti possano apparire, anche sotto forma embrionale, nella società capitalista. Il comunismo implica l'appropriazione collettiva da parte dei produttori dell'insieme dei mezzi di produzione. Ora, questi mezzi, nella società capitalista, sono appropriati (individualmente o collettivamente) dalla classe capitalista e tutta la società è basata sulla separazione radicale fra produttori e mezzi di produzione. Poiché produce merci, il capitalismo non lascia alcuno spazio, anche se limitato, a nessun tipo di controllo da parte dei lavoratori o sui mezzi o sui risultati della produzione, perché la legge del valore non permette altre iniziative che quelle che tendono all'abbassamento del costo di produzione. È anche vero che tale legge può essere infranta in modo temporaneo o localizzato (grazie, per esempio, ad una situazione di monopolio o anche all'intervento dello Stato): ma in questo caso non può trattarsi che d'un prelievo sulla massa del plus-valore sociale. Detto in altro modo, ogni tentativo di autogestione della produzione si risolve o in un auto-sfruttamento o in una partecipazione allo sfruttamento altrui (o anche all'insieme delle due cose).
Non esistono nemmeno, all'interno della società capitalista, degli interstizi in cui sia possibile superare il modo di produzione esistente. Il comunismo è produzione di valori d'uso e non di valori di scambio, ma questo a un livello di sviluppo delle forze produttive tale da implicare l'utilizzo di tutte le risorse del pianeta. Non potrà quindi cominciare ad esistere in modo locale o parziale, né in un sistema autarchico o che mantenga scambi con un settore capitalista. Tutti i tentativi di instaurare delle comunità limitate ad un certo numero di individui (né capitalisti né proletari, in altre parole piccolo-borghesi), lungi dall'aprire la via al comunismo, costituiscono una capitolazione davanti ad una mitologia reazionaria: la resurrezione della piccola produzione mercantile, definitivamente condannata dall'espansione stessa del capitalismo.
Il comunismo implica dunque, in ultima analisi, la capacità del proletariato, oggi classe dominata e sfruttata, ad impadronirsi dei mezzi di produzione, a distruggere l'insieme delle istituzioni della società capitalista (e soprattutto il suo Stato) e a dirigere collettivamente e coscientemente la produzione e tutta la vita sociale. È sufficiente porre il problema in questi termini per urtare contro una contraddizione notevole: è chiaro, in effetti, che il capitalismo non prepara per niente il proletariato a ricoprire un ruolo di questo genere, ma, al contrario, non gli insegna che ad obbedire e ad eseguire.
Ciò non importa, rispondono i teorici che si richiamano al marxismo. Noi abbiamo letto nelle Sacre Scritture che la contraddizione insormontabile fra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione capitalisti porterà inevitabilmente ad una crisi in cui il regime si distruggerà[3]. Costretto dalla gravità stessa della crisi a sostituirsi ai capitalisti smarriti, il proletariato (aiutato, stimolato, consigliato o diretto, a seconda delle preferenze dei teorici, dal partito rivoluzionario) sarà obbligato a prendere il potere e, cammin facendo, ad acquistare l'esperienza che gli manca per instaurare il comunismo.
È certamente un bello schema, che ha però il torto di attribuire a delle categorie filosofiche (forze produttive, rapporti di produzione) una realtà materiale che essi non possiedono. Prendere alla lettera le celebri formule in cui entrano queste astrazioni vuol dire condannarsi a non capire niente dello sviluppo concreto del processo storico. Per non cascare nel feticismo è indispensabile sviluppare i passaggi intermedi dell'analisi che nella sua formulazione finale dà soltanto un'espressione sintetica. Si vede allora che dietro allo scontro fra forze produttive e rapporti di produzione si nasconde l'azione del proletariato contro lo sfruttamento, azione senza la quale non ci sarebbe né crisi né, ancor meno, crollo della società capitalista. Saper precisare le condizioni di sviluppo di questa azione di classe è dunque la prima condizione di ogni teoria rivoluzionaria.
Anche volendo per forza supporre una crisi del capitalismo che non debba niente all'azione del proletariato, la contraddizione precedente non sarebbe comunque risolta per niente. Tutta la storia dell'umanità fino ad oggi testimonia che una classe incapace di esercitare realmente il potere è anche incapace di prenderlo e poi di considerarne la possibilità, qualsiasi sia la situazione. La miseria e l'oppressione possono generare delle rivolte ma non daranno mai l'inizio alla rivoluzione. Tutt'al più potranno portare le loro vittime a sostenere un altro strato sociale che cerca di impadronirsi del potere: ci troviamo allora riportati allo schema della rivoluzione russa e ad altre prodezze dei cavalieri del capitalismo di Stato.
proletariato e comunismo
Per superare la contraddizione occorre osservare che il comunismo non è soltanto una società futura, ma anche un movimento del proletariato che si svolge qui e adesso. Pensare dialetticamente è proprio essere capaci di afferrare simultaneamente il presente e il futuro, di comprendere la realtà storica come un divenire in cui le forme più elaborate sono contenute nelle più embrionali.
Come lavoratore salariato, il proletario è costretto a vendere la sua forza-lavoro. Si trova quindi espropriato della sua attività principale e tende di conseguenza ad essere espropriato di tutte le sue attività, qualsiasi esse siano. Se nella produzione l'espropriazione si esprime attraverso il dominio del processo del lavoro da parte del capitale e dei suoi rappresentanti, al di fuori della produzione essa si verifica attraverso la subordinazione ai dirigenti politici e sindacali e ai capi spirituali, la sottomissione alla tradizione, alla morale borghese e all'ideologia in tutte le sue forme.
Ciò nonostante il proletario resta formalmente padrone di se stesso e della sua attività al di fuori del lavoro ed è anche chiamato a contrattare la vendita della sua forza-lavoro, a negoziare sia il lavoro fornito, sia il salario ricevuto. La sua resistenza allo sfruttamento è quindi insita nei rapporti di produzione capitalisti così come lo sfruttamento stesso.
La resistenza del proletariato ha necessariamente per obbiettivo immediato quello di fissare il prezzo della forza-lavoro al livello del suo valore, cioè al suo costo di riproduzione. Comunque, contrariamente a quello delle altre merci, il costo di riproduzione della forza-lavoro non è determinato unicamente da considerazioni tecniche, ma anche dal rapporto di forza fra le classi. Agendo collettivamente su questo rapporto di forza il proletariato tende non soltanto a limitare il plus-valore, ma anche a riappropriarsi in parte della sua attività. Questa riappropriazione è sinonimo dello sviluppo, in seno al proletariato, di rapporti sociali antagonisti ai rapporti sociali capitalisti.
Sottolineiamo che si tratta di rapporti sociali e non di rapporti di produzione. Questi ultimi sono quelli che si stabiliscono fra le classi nella produzione sociale. Nel modo di produzione capitalista i rapporti fra il proletariato e la classe capitalista si caratterizzano, come è stato detto prima, per la separazione dei produttori dai mezzi di produzione, per la produzione di valori di scambio secondo la legge del valore ecc. I rapporti sociali, d'altro canto, sono costituiti dall'insieme delle relazioni che si stabiliscono fra gli uomini che vivono in società. Oltre ai rapporti di produzione, comprendono quindi anche i rapporti familiari, giuridici, politici, i rapporti dei proletari fra di loro e con gli agenti diretti o indiretti del capitale (dirigenti, burocrati sindacali, poliziotti, preti, militanti politici ecc.).
Ma, si dirà, tutti questi rapporti che fanno parte della sovrastruttura, non sono determinati dalla struttura, cioè dai rapporti di produzione? Certamente, ma questi ultimi, essendo di natura antagonista, producono degli effetti contradditori. Non bisogna quindi stupirsi di vedere i rapporti di produzione capitalisti, che tendono prima di tutto a provocare la sottomissione del proletariato al capitale, dare ugualmente origine a dei rapporti sociali che mettono in causa il capitalismo per la riappropriazione tendenziale dell'attività del proletariato.
Questa riappropriazione non può che essere collettiva, perché soltanto l'azione collettiva può influire sui rapporti di forza fra le classi. In questo senso si può dire che la socializzazione prodotta dal capitalismo è un acquisto irreversibile. Ma pur esercitandosi all'interno della produzione, la riappropriazione non sarà quella dell'attività produttiva stessa perché questo implicherebbe la sparizione del capitalismo che, l'abbiamo visto, non può avvenire in modo locale o parziale. L'oggetto della riappropriazione non può essere che la lotta stessa dei proletari contro lo sfruttamento, sola attività che può sottrarsi almeno parzialmente al dominio del capitale[4] .
La riappropriazione si situa là dove si è prodotta l'espropriazione, cioè sui luoghi del lavoro produttivo. Poiché il capitalismo è un modo di produzione fondato sull'estrazione di plus-valore è questo che determina l'articolazione in classi della società. È nella produzione di plus-valore che il proletariato è costituito in classe ed è quindi lì che può sviluppare dei rapporti sociali che gli siano propri[5].
Questi rapporti si esprimono attraverso la direzione collettiva della lotta operaia da parte di quelli che vi partecipano. Questo fenomeno è, per la sua dinamica, tendenzialmente sovversivo perché alla lunga è incompatibile con il mantenimento dei rapporti di produzione capitalisti. È per questo infatti che è sempre stato combattuto con accanimento particolare da tutte le frazioni della classe dirigente che vi hanno riconosciuto senza esitazioni il loro mortalenemico. Non solo la resistenza « autogestita » ostacola il funzionamento dell'economia capitalista, ma soprattutto pone il proletariato come candidato alla direzione della vita sociale, sviluppando al suo interno dei rapporti sociali di nuovo tipo.
Sono proprio questi rapporti, espressione della tendenza storica alla riappropriazione collettiva da parte dei produttori della loro attività, quelli che noi chiamiamo « rapporti sociali comunisti»[6] . Questa riappropriazione è in effetti la base del comunismo inteso come modo di produzione e di organizzazione sociale. Perciò è ugualmente pietra di paragone del comunismo in quanto movimento attuale del proletariato che tende all'abbattimento del capitalismo. È la tendenza alla riappropriazione, corollario alle forme capitaliste di sfruttamento, che permette, per la prima volta nella storia, a una classe sfruttata di diventare capace di prendere in mano la gestione della società.
sviluppo dei rapporti sociali comunisti
Non c'è niente di più falso che il vedere i rapporti sociali comunisti come un qualcosa di fissato una volta per tutte, quasi un oggetto congelato e immutabile che sarà possibile accumulare a poco a poco come un gruzzolo in un salvadanaio. La persistenza stessa del capitalismo implica la distruzione dei germi del comunismo man mano che questi appaiono. Solo una lotta particolarmente ampia e violenta permetterà ai rapporti sociali comunisti di consolidarsi e diffondersi nel campo della produzione.
Nel frattempo i nuovi rapporti si sviluppano a favore di crisi localizzate e di scontri parziali, arretrando o sparendo quando la normalità capitalista è ristabilita. Il loro sviluppo non è né omogeneo né uniforme e comporta sia delle esplosioni più o meno violente e palesi che dei progressi sotterranei di lunga durata, la costruzione e la distruzione di organizzazioni o il loro recupero da parte del capitale. Comunque, man mano che l'evoluzione del modo di produzione capitalista, sotto le pressioni delle lotte operaie modifica la composizione del proletariato e rinforza la sua coesione interna, i rapporti sociali comunisti ricompaiono ad ogni crisi che il sistema di produzione attraversa e ogni volta ad un livello più alto. È necessario perciò un breve riepilogo delle principali tappe di questa evoluzione, prima di affrontare i problemi del periodo attuale[7].
Durante il capitalismo primitivo il proletariato è poco numeroso e poco concentrato, ridotto, nella maggior parte dei casi, a livello della semplice sopravvivenza fisica. Facile preda delle ideologie capitaliste o anche pre-capitaliste, la sua stessa resistenza prende forme essenzialmente capitaliste: a sostegno, cioè della borghesia contro il feudalesimo e di una frazione della borghesia contro un'altra. Comunque si vedono già apparire, soprattutto fra gli operai qualificati, delle tendenze ad una organizzazione collettiva, fondata su rapporti anti-capitalistici che a quell'epoca si esprimono nella formazione dei sindacati.
La pressione esercitata dal proletariato, malgrado la sua scarsità numerica e qualitativa., è comunque sufficiente (in Inghilterra e in Francia, nella prima metà del 19° sec.) a costringere il capitale a rinunciare ad uno sfruttamento puramente estensivo, fondato sulla compressione del salario reale e sull'allungamento della giornata lavorativa. In risposta si sviluppa la grande industria meccanica che permette di espropriare una parte di operai qualificati del loro mestiere e di procedere ad una prima intensificazione dell'organizzazione del lavoro. Questo sistema di produzione, che arriva al suo apogeo in Europa occidentale e negli Stati Uniti verso la fine del 19. sec., si accompagna ad un recupero del sindacalismo che si organizza su gran scala per diventare un agente del capitale in mezzo agli operai, contribuendo, tramite la pressione che esercita sul tasso dei salari, ad accentuare la tendenza alla meccanizzazione.
Ma, all'inizio del 20. sec., si può osservare che nei centri principali del capitalismo la sola meccanizzazione non è più sufficiente ad elevare in modo soddisfacente la produttività del lavoro. Ne risulta una crisi profonda (sottolineata dalla prima guerra mondiale) nel corso della quale appaiono delle forme superiori di organizzazione del proletariato, attraverso lotte caratterizzate dalla estensione di scioperi di massa. Si tratta soprattutto dei consigli operai (in Russia e in Germania) ed inoltre di organizzazioni di massa di tipo anarco-sindacalista (IWW negli Stati Uniti e CNT in Spagna). Queste organizzazioni rappresentano senz'altro una forma più avanzata di appropriazione da parte del proletariato della propria azione, e la loro dinamica le porta, in alcuni casi, a mettere in causa l'insieme dell'organizzazione sociale capitalista. Comunque occorre osservare che restano generalmente caratterizzate da un grado abbastanza alto di delega del potere a dei « rappresentanti » di diverso livello che, malgrado la loro revocabilità (spesso solo nominale) giocano un ruolo autonomo rispetto alla « base » che è relegata a dei compiti essenzialmente plebiscitari[8].
Senza affermare categoricamente che l'organizzazione di tipo consiliare è stata definitivamente superata dall'evoluzione del capitalismo, si può comunque constatare che tale tipo di organizzazione riappare solo in paesi a capitalismo di Stato, cioè in paesi che sono rimasti, essenzialmente, allo stadio della grande industria meccanica (Germania Est 1953, Polonia 1955 e 1971, Ungheria 1956, Cecoslovacchia 1968)[9].
Parallelamente si osserva che, nei paesi a capitalismo avanzato, dove la sconfitta operaia, segnata dalla depressione degli anni '30 e la seconda guerra mondiale, ha permesso l'estendersi di un sistema di produzione basato sull'organizzazione scientifica del lavoro e sulla catena di montaggio, la forma tipica sotto cui appaiono i rapporti sociali comunisti è l'assemblea di reparto o di fabbrica, dove il ruolo dei delegati è ridotto e il controllo collettivo è più forte. Comunque, poiché la crisi del sistema di produzione attuale è troppo recente, non esiste praticamente alcuna esperienza di questo tipo di organizzazione al di là del quadro dell'impresa (gli scioperi del maggio '68 sono stati, da questo punto di vista, particolarmente deludenti).
Conviene dunque essere prudenti nella formulazione di proposte organizzative che rischiano di essere un passo falso rispetto alla realtà. Nessuna forma di organizzazione si acquisisce una volta per tutte, nessuna ricetta magica porterà alla vittoria. Le forme di organizzazione nascono spontaneamente sul terreno della lotta e spariscono o si trasformano nel loro contrario quando
la situazione di classe diventa sfavorevole. Rivangare delle esperienze che si riferiscono ad un altro stadio di sviluppo del capitalismo è stupido, tanto più che quelle esperienze si sono concluse in sconfitte clamorose. Piuttosto che feticizzare una forma di organizzazione passata è preferibile essere attenti allo sviluppo reale dell'iniziativa proletaria, qui e ora.
Per quello che ne possiamo dire, l'ipotesi attualmente più plausibile è quella di collegamenti e coordinamenti di assemblee generali per mezzo di delegati con compiti limitati senza potere decisionale proprio. La tendenza istintiva del proletariato in lotta è oggi quella di svalorizzare la figura dei delegati, di ridurli al ruolo di semplici strumenti tecnici, eventualmente sostituibili con mezzi di comunicazione più moderni[10]. Questa tendenza, spinta all'estremo, non è altro che il comunismo nella sua forma compiuta.
problemi dell'intervento comunista
La tendenza alla riappropriazione collettiva dell'azione sociale dei produttori tale quale si è manifestata nel corso della storia del movimento operaio, si traduce concretamente nel rifiuto della gerarchia e della delega di potere, nell'abolizione della separazione fra decisione ed esecuzione all'interno di organi che sono sia deliberanti che esecutivi. Ne risulta che ogni tentativo di creare una direzione separata dalle masse dei proletari in lotta è per principio controrivoluzionario, qualsiasi sia la « coscienza » soggettiva di colui che lavora in questo senso. Non bisogna dunque meravigliarsi se, nell'armamento anti-proletario del capitale, a fianco della repressione violenta e delle diverse forme di integrazione e di recupero, l'intervento dei militanti direttivisti ha spesso occupato una posizione di rilievo[11].
Ciò che rende materialmente possibile questo intervento è il fatto incontestabile che, nelle condizioni di esistenza imposte dalla società sfruttatrice, la chiara percezione della necessità del comunismo resta per forza limitata ad una infima minoranza, che d'altra parte non è che parzialmente composta di proletari. Nel loro desiderio comprensibile di « fare qualcosa », di « lottare per il comunismo », una parte di quelli che sentono questa necessità si buttano in un militantismo attivo più o meno continuo.
Così facendo rischiano fortemente di fare gli agenti inconsci della contro-rivoluzione nella misura in cui il loro intervento non tende ad aiutare lo sviluppo dei rapporti sociali comunisti. In effetti possono essere considerati come dei comunisti solo se nella loro azione tengono conto del fatto che questo sviluppo non può situarsi che a livello della classe e non di una organizzazione specializzata.
I militanti possono sicuramente giocare un ruolo utile nel favorire lo sviluppo dei rapporti sociali comunisti, intervenendo sistematicamente in favore della direzione della lotta da parte dei proletari stessi, per l'adozione delle più avanzate forme di organizzazione, per l'estensione dei collegamenti e dei coordinamenti delle lotte[12]. Rischiano sempre, al contrario, di inibire lo sviluppo dei rapporti sociali comunisti facendosi riconoscere come direzione specializzata
dai proletari in lotta. Questo rischio esiste anche se i militanti non cercano deliberatamente di imporsi come direzione. Evidentemente diventa più serio se tutta la loro attività tende verso questo obbiettivo. La soluzione non è nel rifiuto di ogni intervento cosciente nel processo della lotta di classe, ma nella comprensione dell'obiettivo reale di tale lotta.
È comunista l'intervento che contribuisce ad aumentare la fiducia in se stessi dei proletari, il loro rifiuto a tutte le direzioni specializzate, la capacità a prendere nelle loro mani i propri interessi. Ciò non implica per niente l'esaltazione imbecille della lotta a tutti i costi e non importa in quali circostanze, non più che la condanna degli obiettivi « bassamente rivendicativi » in favore di parole d'ordine totalmente staccate dalla realtà immediata come può essere percepita da quelli che la vivono di giorno in giorno. Tali interventi ispirati che siano da « purismo rivoluzionario », infatti ostacolano lo sviluppo di rapporti sociali comunisti perché tendono a manipolare l'attività dei proletari secondo criteri che a loro sfuggono, secondo obiettivi determinati dai detentori della « scienza rivoluzionaria » che si sforzano di convincerli che la politica è una cosa complicata e misteriosa e che debbono affidare a « quelli che sanno » il compito di condurli al paradiso comunista.
È a partire da queste considerazioni che è possibile affrontare in modo coerente e di principio i problemi della tattica rivoluzionaria.
Per quanto riguarda, ad esempio, il parlamentarismo, il sindacalismo e le guerre di liberazione nazionale, il problema non è per niente quello di sapere se, a un certo stadio di sviluppo del capitalismo, queste possono portare dei vantaggi al proletariato, o contribuire a uno sviluppo più rapido delle forze produttive, cosa che gli conferirebbe una carattere « progressista ». L'unico problema è quello di sapere se possono contribuire a sviluppare fra i proletari i rapporti sociali comunisti. Per il parlamentarismo e le guerre nazionali la risposta è evidentemente negativa, qualsiasi sia il periodo considerato. All'alba come al crepuscolo della società capitalista, esse possono solo mettere il proletariato a rimorchio della borghesia, inculcargli il culto del capo e la pratica della delega del potere e della separazione delle funzioni.
Quanto al sindacalismo, è solo ai suoi primi balbettamenti che si può attribuirgli un ruolo positivo nello sviluppo dei rapporti sociali comunisti, cioè durante la fase primitiva del capitalismo e, in certa misura, nelle sue espressioni anarco-sindacaliste durante il periodo della grande industria meccanica. Dopo la sua istituzionalizzazione, il sindacalismo è diventato quello che la storia ne ha fatto: uno strumento che mantiene i rapporti sociali capitalisti sia nella fabbrica che fuori. La quantità esatta di concessioni economiche che il capitalismo è stato in grado di accordare in questo o quel periodo non hanno alcuna influenza sulla caratterizzazione del sindacalismo come forma di organizzazione. Non ha altre possibilità materiali che quella dell'azione burocratica e intanto gioca a palla fra la borghesia e il proletariato, con il quale intrattiene, in ogni caso, dei rapporti tipicamente capitalistici.
Un'altra questione riguarda l'atteggiamento da adottare nei confronti delle forme embrionali di potere operaio che nel corso dell'attuale periodo hanno cominciato a ricostituirsi sotto vari nomi (comitati di azione, comitati di base, assemblee autonome ecc.). È frequente sentir affermare che tali organismi non possono validamente esistere che nel corso di una lotta aperta e violenta, e che, mancando questa, tendono irresistibilmente a convertirsi in neo-sindacati.
Questo punto di vista è in apparente accordo con l'esperienza storica e con il principio teorico secondo il quale il proletariato non può disporre, in regime capitalista, di organizzazioni di massa che gli siano proprie. Occorre comunque tenere presenti le caratteristiche originali dell'attuale periodo: la crisi in cui è ormai entrato il sistema di produzione non comporta una risoluzione a breve termine, ed è pensabile che per un certo periodo di tempo, abbastanza lungo, la normalità capitalista non possa ristabilirsi, e che quindi si possano costituire e mantenere dei nuclei di operai comunisti, anche al di fuori di una situazione di crisi acuta. Questa possibilità, se confermata, deve essere utilizzata per permettere a delle frazioni del proletariato di agguerrirsi e di acquistare esperienza, in pratica, dei rapporti sociali comunisti. Rallegrarsi quindi dogmaticamente della scomparsa di un comitato operaio, o, ancora peggio, agire per la sua liquidazione, può essere un atteggiamento perfettamente irresponsabile.
Per distinguere gli organi embrionali di potere operaio dalle formazioni neo-sindacali, non ci si può fondare sul riconoscimento a parole del comunismo, e ancora meno sul disprezzo verso le rivendicazioni quotidiane. L'unico criterio valido è la difesa intransigente delle forme di organizzazione che tendono al comunismo. A questo riguardo è vano operare delle sottili distinzioni fra base programmatica e forme di organizzazione. Queste non sono delle scatole vuote pronte a ricevere non importa quale contenuto, ma l'espressione stessa del processo della rivoluzione comunista.
È chiaro che gli organi di lotta che esprimono lo sviluppo dei rapporti sociali comunisti hanno commesso e commetteranno degli errori, causa delle sconfitte passate e, magari, future. Non potrebbe essere altrimenti poiché la natura stessa della rivoluzione comunista esclude che si sostituisca alla fallibilità del proletariato l'infallibilità, del resto perfettamente immaginaria, di un qualsiasi comitato centrale. Si osserverà inoltre che uno dei vantaggi maggiori delle forme di organizzazione comuniste è quello di permettere a coloro che vi partecipano di imparare dai propri errori, mentre nelle strutture direttiviste essi non fanno che sopportare passivamente le conseguenze degli errori altrui.
I problemi della rivoluzione comunista non saranno risolti dall'intervento di rivoluzionari professionisti ma dalla maturazione dell'azione della classe proletaria, nei confronti della quale i militanti non possono che giocare un ruolo subordinato. Va da sè che l'azione di classe non si sviluppa nel vuoto ma in funzione della situazione del sistema di produzione capitalista. Questa situazione è oggi favorevole nella misura in cui la crescita della produttività nel quadro del fordismo e del taylorismo urta contro delle difficoltà crescenti, cosa che rafforza la resistenza del proletariato allo sfruttamento e costringe i capitalisti a delle misure che non possono che provocare uno scontro con la classe operaia. Ma a questo scontro non si accompagnerà uno sviluppo importante dei rapporti sociali comunisti, chiave del processo rivoluzionario, se questi ultimi non esistono già, almeno in tendenza, nel tessuto sociale proletario. Contribuire alla maturazione del proletariato in questo preciso senso è quindi il compito essenziale, se non l'unico, dei militanti comunisti.
note sulla terminologia
Le questioni poste dalla terminologia sono per principio prive di interesse. Ogni terminologia è criticabile in quanto tende a fermare in un concetto fisso una realtà sempre in movimento. Al contrario, ogni terminologia può essere
accettata nella misura in cui chi l'utilizza indichi chiaramente in che senso la usa. Però in una società di classe il linguaggio, anch'esso, appartiene alla classe dominante ed è quindi inevitabile che alcuni termini siano particolarmente carichi di connotazioni ideologiche. È ciò che ci ha portato a cercare un termine relativamente neutro, cioè « rapporti sociali comunisti », che ha il vantaggio di mettere l'accento sulla realtà che noi cerchiamo di descrivere, collegandosi al materialismo storico più che ai capolavori dell'ideologia borghese.
Non si può dire lo stesso per « coscienza comunista », termine che viene generalmente da chi fa lo sforzo di trattare del comunismo come attività attuale del proletariato. Il termine scelto non facilita l'analisi e inoltre questo modo di affrontare il problema apre la porta del movimento rivoluzionario a tutti coloro che vogliono portare « dal di fuori » al proletariato una coscienza della quale sarebbe privo.
Si tratta, in effetti, di descrivere un fenomeno sociale e non individuale, materiale e non costituito di idee scarne che gioca un ruolo determinato in una società determinata. Se deve essere evidente per un materialista che la coscienza esprime dei rapporti sociali e che i rapporti sociali si esprimono nella coscienza, le mediazioni fra i rapporti sociali e lo stato di coscienza si prestano molto male all'analisi politica e molto bene al confusionismo ideologico.
Non ci sarebbe, al contrario, alcun inconveniente nel parlare di « rapporti sociali proletari », termine che metterebbe l'accento sulla classe che (attualmente) sviluppa questo tipo di rapporto, piuttosto che sullo stadio (futuro) in cui questi rapporti saranno vicini al loro pieno compimento, essendo sparita la classe che li portava avanti. Questo termine è molto vicino anche a quello di autonomia proletaria, usato da dei compagni italiani. Comunque « autonomia proletaria » mette l'accento sui rapporti fra proletariato e capitale, mentre « rapporti sociali comunisti » sottolinea la strutturazione interna del proletariato, che è poi l'altra faccia della stessa medaglia.
[1] Vedi soprattutto « Per un raggruppamento rivoluzionario », in « Lutte de classe », settembre 1969, riprodotto in « Contre le courant » pp. 21-29.
[2] Per una buona comprensione del problema esaminato sarebbe necessario analizzare globalmente le condizioni di passaggio da un modo di produzione all'altro, compresa la famosa questione della « decadenza ». Questo tipo di analisi uscirebbe largamente dal quadro qui esposto, ma si può comunque osservare che è l'esistenza di una classe capace di introdurre un modo di produzione superiore che ha messo in crisi il feudalesimo piuttosto che la stagnazione delle forze produttive risultante dai rapporti di produzione in vigore. A questo riguardo deve essere considerato come eccezionale, e non come modello dei capovolgimenti sociali, il processo di decadenza attraversato dalla società schiavista romana. In altro modo si spiegherebbe male come la stagnazione secolare (magari millenaria) che ha conosciuto il modo di produzione asiatico, non sia mai sbocciata in una rivoluzione endogena (nel senso che le cause che l'hanno prodotta sono state all'interno della società, e non introdotte dall'esterno).
[3] Qui i teorici si divideranno in più scuole, a seconda che la distruzione sia considerata come ineluttabile o come il risultato dell'intervento dell'una o dell'altra direzione rivoluzionaria. In casi estremi di delirio direttivista questa direzione viene considerata capace di provocare da se stessa la crisi.
[4] Ciò non implica che ogni lotta ha per effetto quello di sottrarre il proletariato al dominio del capitale; appare anzi sempre più chiaramente che solo le lotte che sfuggono alla direzione degli agenti del capitale possono mettere dei limiti allo sfruttamento.
[5] Ne consegue che nel capitalismo giunto al suo pieno sviluppo non esiste altro luogo d'azione che la fabbrica o, per mimetismo, là dove la razionalizzazione capitalista ha creato delle condizioni di lavoro che assomigliano a quelle della fabbrica. Questa realtà può essere mascherata dall'esistenza di condizioni locali che sembrano offrire al proletariato altre possibilità di unione (ad esempio il quartiere). Tali situazioni non hanno alcuna possibilità di generalizzarsi e soprattutto non possono generare dei rapporti più avanzati di quelli capitalisti. Possono tutt'al più condurre a una regressione verso forme sociali pre-capitaliste. Quanto ai rapporti che si creano in fabbrica, il proletario non se li porta dietro quando esce dalla fabbrica: questi rapporti non esistono che in presenza delle condizioni che li hanno fatti nascere e solo per quelli che si trovano nei luoghi di tali condizioni.
[6] Sulle considerazioni a favore dell'uso di questo termine vedi l'ultimo paragrafo del presente articolo: « Note sulla terminologia ».
[7] I rapporti fra lo sviluppo del capitalismo e la resistenza allo sfruttamento sono troppo complessi perché sia possibile indagarli in questo « volo » sulla storia del movimento operaio. Ci si limiterà qui a tratteggiare qualche punto particolarmente importante, corrispondente a delle ipotesi di lavoro su ricerche in corso. Per ciò che concerne l'azione della resistenza operaia sull'accumulazione del capitale, e i suoi rapporti con la crisi del capitalismo, è stato tracciato un quadro teorico in « Lutte de classe » del giugno 1971 (riprodotto in « Contre le courant », pp. 71-90) e applicato alla crisi attuale in « Lutte de classe » del dicembre 1973.
[8] Sul funzionamento reale dei soviet si potrà consultare con profitto l'opera di O. Anweiler « I soviet in Russia (1905-1921) » che fa giustizia delle favole raccontate a questo riguardo, sia dai leninisti che dai « consigliaristi ».
[10] Ricordiamoci a questo proposito la parola d'ordine degli operai della Fiat: « Siamo tutti delegati ».
[11] Sulle possibilità e sui limiti del ruolo dei militanti rivoluzionari e sul carattere contro-rivoluzionario del dirigismo, vedi: « Dal raggruppamento all'organizzazione rivoluzionaria » (« Lutte de classe », novembre 1969) e « Il dirigismo contro la rivoluzione » (« Lutte de classe », gennaio 1972).
[12] Visto quello che si è detto dovrebbe essere superfluo precisare che si tratta di una lotta nella produzione e non di una lotta ideologica. Gli « educatori del proletariato » che pretendono di rimpiazzare la lotta con la propaganda (elettorale o no) non fanno che portare aiuti, felicemente derisori, all'apparato ideologico del capitale, il cui compito essenziale è, giustamente, quello di tentare di « tranquillizzare » il proletariato.
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