Quali sono le prospettive? Violenza o non-violenza? Indignazione o rivolta?
Echanges n.138 2011 www.mondialisme.org
Per quasi un anno ormai, una serie di eventi in un mondo dominato dal capitale stanno causando timori e speranze.
Le paure si materializzano, ormai tre anni, nell’impossibilità per il capitale di risolvere la sua crisi economica e finanziaria. Questo è l'oggetto di molti commenti e previsioni, compreso il nostro. Questi commenti raramente affrontano il problema centrale: come mantenere il tasso di profitto, elemento centrale del funzionamento del sistema capitalista (1)?
"Paure" non è veramente la parola giusta, perché se nel breve periodo, non c'è alcun dubbio che la massa degli sfruttati e degli esclusi sopporta già e dovrà sopportare ancora di più il peso dei tentativi di salvataggio del sistema, in sintesi accrescere lo sfruttamento del lavoro riducendo i salari, la resistenze, le lotte, e le problematiche intrinseche al sistema possono dare la speranza, a un termine più o meno lungo, che il sistema crollerà. Senza sapere quali scontri e catastrofi accompagneranno questa caduta (2).
Le ragioni per sperare questa fine possono essere viste nell’apparizione, sicuramente timida ma comunque significativa, quasi contemporaneamente per un intero anno, di lotte in vari settori. Alcuni sono una ripetizione di lotte precedenti, altri hanno caratteristiche che abbiamo visto altre volte, molto occasionalmente, già riconosciute, ma con una nuova dimensione nel numero e nel tempo.
Parliamo prima della Francia, le lotte dell’autunno 2011 sulla riforma del sistema pensionistico sembravano dare ad alcuni la speranza di una contestazione più ampia, non solo politica. Gli sforzi di una minoranza molto piccola, nel tentativo di spingere il movimento in maniera più radicale ha mostrato il difetto intrinseco di tutto ciò che si vede avanguardia (sotto una forma o un altra): l'idea che alcuni elementi, che si sentono più consapevoli, possano mettere le masse in movimento, risulta essere la concezione di una élite che si designa essa stessa e che si pensa destinata a questo scopo, riflette esattamente le gerarchie del sistema che vorrebbe abolire.
C'è stata comunque una certa evoluzione rispetto ai concetti sui metodi e sugli obiettivi: la considerazione che solo fermando l'economia si può colpire il cuore del sistema. Lo slogan "blocchiamo l'economia" a prescindere da questa stessa critica di una azione di avanguardia, abbandona il concetto dell’attacco frontale del "gran giorno" per raggiungere il settore vitale della merce nel suo processo di produzione e distribuzione.
Altre lotte, a volte di natura diversa, si sono sviluppate dall'inizio del 2005, e si sono manifestate con movimenti di massa, superando anche le frontiere, una specie di internazionalismo non cercato, ma semplicemente dovuto al fatto che situazioni identiche chiamavano a identiche reazioni di rivolta. Tuttavia, questa estensione in un solo paese o in diversi stati distinti non è stato un movimento generale per un cambiamento radicale nel sistema sociale, vale a dire, la fine di un sistema globale basato sullo sfruttamento del lavoro. C'è stata una sovrapposizione delle rivendicazioni e delle azioni di classi distinte che pur perseguivano scopi immediati a volte molto lontani, senza mostrare alcuna solidarietà al di là degli sforzi perché il potere cambiasse teste e metodi, ma una volta raggiunti questo risultati, si è diviso.
Per esempio, potremmo confrontare lo scoppio della rivolte nella periferie britanniche (agosto 2011) a quelle delle periferie francesi (autunno 2005) o le rivolte tunisine (dicembre 2010) o egiziane (gennaio 2011): hanno tutte in comune l’essere state innescate da una scintilla, l'omicidio di un giovane da parte della polizia. Ma al di là di questa constatazione, le situazioni e le conseguenze sono state molto diverse e non possiamo, se non in un livello molto generale, legarle tra loro.
È anche possibile confrontare le manifestazioni anti-CPE in Francia (2006) sulla precarietà del lavoro (non solo studentesca) ed i loro risultati immediati, quelle degli studenti britannici, limitate ai diritti universitari e rimaste unicamente studentesche (gennaio 2011), o quelle degli studenti israeliani (agosto 2011). Le prime due sono rimaste limitate al loro oggetto e al loro carattere –in qualche modo classico- di manifestazione, anche se a Londra, ha avuto la sua parte di scontri, occupazioni e lesa maestà. Di contro, in Israele, in un contesto economico simile a quello della Gran Bretagna o della Francia, la domanda di alloggi per studenti a prezzi accessibili ha provocato una protesta di tutta la popolazione di un carattere simile a quello che stava succedendo contemporaneamente in Spagna. Ma con gli stessi limiti di una semplice pressione politica e con l'annullamento di questioni essenziali per lo Stato (per Israele, per esempio, la questione palestinese).
In Egitto (e in misura minore in Tunisia), la giustapposizione di correnti diverse segnate dalla loro origine di classe mette in evidenza la complessità di una situazione che non può essere risolta né in un modo né nell'altro, in una sorta di patchwork in cui l'azione si intreccia alla repressione, complessità aggravata dal sostegno degli Stati Uniti, direttamente all'esercito che resta la spina dorsale del regime e indirettamente ad alcuni elementi dell'opposizione politica. Il proletariato, che ha giocato un ruolo chiave nella crescita del movimento di protesta e nell'eliminazione della maggior parte dei capi del potere più screditati, si trova a dover combattere da solo per le rivendicazioni di sempre e costretto da una repressione sempre più forte a continuare a farsi sfruttare in condizioni identiche.
Gli stessi interessi stranieri hanno ingerito ma in modo differente le rivolte in Libia e in Siria, rivolte in cui il proletariato è assente o vittima diretta. In Libia, la guerra civile è diventata un intervento diretto straniero per interessi petroliferi e gli operai, per lo più immigrati provenienti dai paesi circostanti (più di 2 milioni), sono stati costretti a fuggire o sono stati, come i neri del sud Sahara, massacrati con falsi pretesti. In Siria, le strategie geopolitiche per l’equilibro regionale, fanno si che da mesi, le manifestazioni ripetute di una opposizione politica sostenuta dietro le quinte, dagli Stati Uniti si risolvano con dei massacri (tra i 100 ei 2000 morti) in una indifferenza generale.
In India, una sorta di guru ha mobilitato contro la corruzione con il suo sciopero della fame in una piazza centrale nella capitale, folle che esprimevano la loro protesta, occupando luoghi pubblici in modo pacifico, affermando la non-violenza di Gandhi. Ma questo movimento, anche se portava avanti alcuni temi politici nazionalisti, non ha toccato le strutture sociali e non si è legato in alcun modo ai differenti movimenti di lotta dei lavoratori e dei contadini.
In Spagna, c’è una situazione simile: il movimento degli indignati si dice pacifico e aspetta che il potere metta in campo la "moralità" e la "trasparenza" nella vita politica. Non raccoglie in alcun modo le richieste dei lavoratori, ma si è in qualche modo frammentato in comitati di quartiere che sembrano abbandonare un attitudine passiva per azioni di difesa, per esempio in relazione agli sgomberi degli alloggi.
La Grecia offre un perfetto esempio di queste giustapposizioni di lotte di classi differenti, che a volte si uniscono, e a volte si isolano. Queste lotte vanno dagli scioperi e manifestazioni passeggiate sindacali ripetute all'infinito, alle occupazioni di piazze pubbliche degli indignati, a scontri con la polizia, che non superano un certo livello di violenza, di occupazione degli stabili pubblici o distruzione e saccheggi e a azioni di gruppi clandestini armati. L'unico carattere specifico di questo insieme eterogeneo è la sua durata, tra poco un anno.
Questo elenco di situazioni (si potrebbero citarne altre) che si caratterizzano per la loro eterogeneità e, in alcuni paesi, per un caos che continua senza soluzioni, sia il trionfo della ribellione, sia la sua repressione più o meno cruenta, non potranno nascondere due punti di particolare importanza ora:
- In molti paesi (soprattutto i paesi sviluppati), le opposizioni che si esprimono con questi movimenti grandi ma pacifici (anche se subiscono una repressione più o meno violenta) non hanno avuto risultato sulle decisioni dei governi. Ovunque, imperturbabile, i governi mantengono le misure di austerity di tutti i tipi colpendo l’intero proletariato (occupati o disoccupati) e ciò che chiamiamo oggi classi medie.
Là dove si è sviluppata una azione più radicale (in paesi dominati da dittature e dove la crisi ha esercitato una pressione intollerabile sulla popolazione -ad eccezione di una fetta di ricchi e privilegiati del regime-), questa azione, ha portato a cambiamenti politici superficiali e ha mantenuto la maggior parte delle strutture di dominio (con dietro una presenza di una o più potenze straniere che hanno saputo utilizzare queste rivolte per i loro interessi). In altre parole, per il proletariato, non è cambiato, ne strutturalmente ne nello sfruttamento quotidiano;
- Indipendentemente dalla originalità, la persistenza, la dimensione di questi movimenti di rivolta, ovunque, in ciascuno degli Stati interessati e sul piano mondiale, il capitalismo continua a funzionare. Anno dopo anno, con aggiustamenti giorno per giorno, attraverso manipolazioni e pronostici pessimisti, l'unico scopo è quello di convincere i lavoratori ad accettare i sacrifici per salvare il sistema che li sfrutta. Non bisogna però condividere il timore di una catastrofe che non farebbe perdere molto a coloro che hanno ben poco e da cui potrebbe nascere non più dei mali, ma che potrebbe aprire una porta verso la liberazione dallo sfruttamento del lavoro.
Eppure rimane una domanda che ci può riguardare tutti, al di là di tutte le incertezze su quello che diventerà la crisi strutturale del sistema (una delle questioni sarebbe la guerra se nessun altro mezzo potrà ripristinare il tasso di profitto). È quella di sapere se tutte queste lotte/conflitti diversi con le specificità che abbiamo sottolineato, potranno unirsi e se da questa unione partiranno le prospettive di una società comunista. Può non essere evidente che alcuni canali si sono aperti in questa direzione, ma alcune caratteristiche delle lotte possono permettere di pensare che in realtà più che l'analisi e/o i progetti che possono sorgere, le soluzioni tradizionali sono quasi universalmente respinte.
E' diventato un luogo comune constatare una disaffezione generale della politica riferita ai governi, per cui si pensa che un'altra politica potrebbe prendere delle decisioni per imporsi sul mondo capitalista economico e finanziario (3). Ciò che è emerso più di recente è, con parole vaghe, ma comunque significative come democrazia reale, è un rifiuto della rappresentanza cosi come la impongono le democrazie per difendere il sistema capitalista. Un altro punto di cui abbiamo parlato a proposito dell'ultimo movimento in Francia è l'abbandono della nozione di scontro diretto con le forze repressive dello stato per altre tattiche: la paralisi dell'economia, la resistenza passiva, la disobbedienza civile, ecc. Tutto questo avviene come se una consapevolezza diffusa si fosse sviluppata circa l'incapacità di scontrarsi con i poteri capitalisti attraverso la violenza diretta, vista l'entità e l'efficacia dell’arsenale repressivo di cui questi dispongono oggi. Come se questi poteri repressivi potessero essere totalmente paralizzati non solo da uno sciopero generale, ma ancor più dalla generalizzazione di un movimento di lotte diverse e globali che rendendo impossibile ogni azione repressiva.
La dispersione di questi movimenti di lotta non deve nascondere che ci troviamo di fronte ad un’ebollizione che non avveniva da tanto tempo, di fatto dal post prima guerra mondiale. Poco importano i suoi balbettamenti, la sua vaghezza e i sui limiti, di fatto ha oltrepassato le frontiere: il Wisconsin chiama la piazza Tahrir, ora dei siriani stanno tentano di costruire un comitato di lotta e gli indignati di Israele copiano la Puerta del Sol, un guru in India smuove le folle alla Gandhi e persino i cinesi stanno cercando quello che chiamano una "rivoluzione dei gelsomini" (4).
Bisognerebbe essere totalmente ciechi o ottusi nelle proprie certezze politiche per ignorare che qualcosa è cambiato su scala mondiale, senza essere in grado di specificare i contorni precisi ne il divenire. Alcuni vedono in questa generalizzazione il risultato dell'espansione dei moderni mezzi di comunicazione che, effettivamente, non rispettano i confini, innegabilmente questo gioca un ruolo nel fatto che ciò che accade in una parte del mondo è immediatamente conosciuta in un altra, anche molto lontana, e una volta che il vento della rivolta si è alzato, può soffiare a una velocità quasi istantanea e ovunque e far si che le folle possono raccogliersi in poche ore, ma una tecnica non crea una situazione comune, questo deriva dalla globalizzazione dell'economia, dalla standardizzazione delle condizioni di sfruttamento del lavoro, e dalla crisi che gradualmente taglie le garanzie, destabilizza gli stati, e fa passare all'opposizione e alla rivolta quelli che erano i loro più sicuri sostenitori.
I poteri in essere -il capitale e i suoi rappresentanti- non sono completamente disarmati davanti a questa marea liberatrice, è forse un'esagerazione, ma è quello che sta accadendo nel mondo. Essi cercano di interferire in quello che possono prevedere nelle esplosioni dove ci sono tensioni all'interno di uno Stato (dittatura o altro che sfuggono o tentano di sfuggire al controllo di una o un altra delle grandi potenza) hanno raggiunto una soglia critica. Egitto, Libia, forse domani la Siria, sono buoni esempi di questi interventi diretti e indiretti per assicurare che tali disordini non facciano uscire gli Stati interessati dal posto che gli è stato assegnato dalle grandi potenze. Sono passati quasi dieci anni da quando le istituzioni americane hanno stabilito i metodi pacifici che permettono di abbattere non solo le dittature che gli sono ostili o che hanno esaurito la loro utilità, ma anche le democrazie che avrebbe preso il cattivo cammino. Questo è stato sperimentato nell'interesse di queste stesse grandi potenze in paesi come l’Ucraina, la Georgia, ecc. Nelle rivolte di questo anno, sembrano esserci stati tali tentativi di manipolazione. Ma è diventato un gioco pericoloso, perché i movimenti, a volte fomentati dalle stesse manipolazioni, hanno superato lo spazio previsto e liberato forze sociali -quelle del proletariato- per cui è difficile sedare le rivolta semplicemente attraverso qualche riforma politica minore.
Se si volesse riassumere la situazione del movimento internazionale di rivolta di fronte a tutte le forme di repressione, si potrebbe dire che tutto deve essere fatto da una parte o dall'altra: le rivolte mantengono il loro potenziale per un superamento, i poteri, incastrati dall’enormità dei problemi della crisi e dalla loro incapacità di risolverli, non hanno ancora trovato la via repressiva che sbilancerebbe il rapporto di forza dalla loro parte. Malgrado i limiti di queste rivolte potrebbero trasformarsi in movimenti radicali contro l'ordine costituito? Tutto dipenderà dall'evoluzione della crisi. E su questo, qualsiasi previsione sarebbe pericolosa.
HS
NOTE
(1) e, eventualmente, come ripristinare e aumentare il tasso di profitto? - Ma il capitalismo non è a questo punto oggi.
(2) In altre parole, abbassare il prezzo della forza lavoro al di sotto del salario necessario alla sua riproduzione al fine di aumentare il plusvalore.
(3) E' di moda oggi criminalizzare i governi -vale a dire, la politica e i politici - come la causa dei mali che causa il capitale… Si tratta di una cortina di fumo utile per cercare di far credere che i governi potrebbero, se fossero all'altezza, regolamentare il problema globale della crisi, produttivo e finanziario strettamente intrecciati. Questo è ciò di cui ci vogliono convincere gli esperti del tipo di Attali che nell'Express del 10 agosto 2011 scrive: "I mercati non lasceranno tregua alla gente fino a quando i politici non si comporteranno come uomini di Stato". Questa non è una novità. Nel Manifesto del partito comunista (1848), Marx scrive: "Per lo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia, da un carattere cosmopolita alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Con grande dispiacere dei reazionari, la borghesia a portato all'industria la sua base nazionale. Le vecchie industrie nazionali sono state distrutte e lo sono ancora ogni giorni... Al posto del vecchio isolamento delle provincie e delle nazioni sufficienti a se stesse, si sviluppano relazioni universali, una inter-dipendenza universale delle nazioni"
(4) Possiamo vedere in questa situazione mondiale l'espressione di ciò che Engels constatava nel 1885: "Oggi il proletariato tedesco non ha bisogno di una organizzazione ufficiale ne pubblica ne segreta; la relazione semplice naturale dei compagni appartenenti alla stessa classe sociale e professanti le stesse idee è sufficiente, senza statuti, né comitati dirigenti, né risoluzioni, o altre forme tangibili, per scuotere l'intero Impero tedesco (...) Inoltre il movimento americano ed europeo internazionale in questo momento è diventato così potente che non soltanto la sua forma primaria e segreta (lega segreta), ma anche la sua seconda forma, molto più grande (l’Associazione Internazionale dei Lavoratori, pubblica) è diventato un ostacolo e il semplice senso di solidarietà basato sulla comprensione della posizione stessa di classe, è sufficiente per creare e mantenere tra i lavoratori di tutti i paesi e tutte le lingue un unico partito proletario. "(Qualche parola sulla storia della Lega dei Comunisti.)
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