Il
keynesismo della Corte dei Conti
Antonio Pagliarone
Mi è capitato di leggere sul blog di
sinistranet un articolo di Vladimiro Giacchè dal titolo “Le manovre tecniche
hanno creato recessione” nel quale l’autore, utilizzando l’audizione della
massima istituzione dello stato alla Commissione Bilancio, intende avanzare le
responsabilità dell’attuale governo “tecnico” per la grave recessione in cui
versa il paese delle anime belle. In sostanza Giacchè usa la Corte dei Conti
per consigliare una inversione di rotta per il prossimo governo che dovrebbe,
citando letteralmente la relazione, “rafforzare la strategia per la
crescita, affidando ad essa obiettivi più ambiziosi di quelli finora adottati»,
e precisa – molto opportunamente – che «gli interventi per la crescita sono
solo in parte riforme senza spesa» e che quindi serve «mobilitare
risorse finanziarie».
In
sostanza, dopo aver snocciolato qualche dato di dominio comune, l’autore sembra
consigliare alla nuova amministrazione di intraprendere una fase di
investimenti utili per neutralizzare la cosiddetta recessione in atto.
Purtroppo Giacchè insiste nel non voler considerare la situazione economica
attuale come una profonda Depressione ancora peggiore di quella degli anni 30.
Una depressione che colpisce tutte le economie sviluppate, persino quelle tanto
mitizzate in passato. L’autore è rimasto fermo nel considerare gli interventi
di politica economica come risolutori di un fenomeno mai visto nella storia
umana ossia “la dittatura della finanza”; una dittatura che si manifesta con
l’imposizione di dinamiche speculative prodotte da una economia capitalistica
in totale disfacimento da molti decenni. Una decomposizione che ha dei
connotati diversi dall’implosione del modello sovietico caratterizzato da una
economia di cartone, ma che alla fine porterà ad un inevitabile crash
generalizzato. Purtroppo i cosiddetti “mercati” trattati come se fossero
organismi viventi in grado di decidere qualcosa (maledizione al sociologismo
italiano) non manifestano reazioni più o meno razionali alle iniziative
totalmente fallimentari della governance ma sono essi stessi autoregolati da un
fattore decisamente banale: il profitto. Se il capitale speculativo ha prodotto
profitti negli ultimi decenni ebbene tali profitti sono stati riversati
totalmente nella finanza che ingoia continuamente quelli realizzati nel settore
produttivo. Purtroppo sono molti i testardi che non vogliono vedere la realtà e
se la intortano illudendosi che si possa uscire da una malattia incurabile. Se
la Corte dei Conti e con essa Giacchè prendessero in esame solo per un momento
l’analisi marxiana si renderebbero conto che ahimè non esiste via d’uscita a
tale situazione. Tutti i governi siano essi di destra, di sinistra o tecnici
debbono sottostare a questa dittatura che non si esprime attraverso bande
militarizzate di repressori ma da una spada di Damocle pronta a cadere sul
sistema bancario e sulle imprese a causa dell’indebitamento. Ho provato a
dimostrare empiricamente la condizione di devastazione economica nel mio “La più Grande Depressione
della Storia” nel quale cercavo di fotografare una condizione generalizzata di
crollo estremamente drammatico di tutti i fondamentali nei vari paesi.
Purtroppo la tendenza al rifiuto dell’evidenza empirica porta molti intellettuali
ad illudersi di poter consigliare governi di varia statura ad adottare
politiche economiche adeguate. Sono illusioni perdute che dimostrano solamente
che non esiste alcuna forza in grado di rappresentare veramente gli interessi
dei lavoratori abbandonati a se stessi nella loro miseria di ogni giorni e
purtroppo illusi di tornare ad un capitalismo che possa garantire loro il pane
quotidiano. Per finire vorrei citare una vecchia frase di Marx tanto citato da
molti (ma in realtà frullato nel keynesismo) “Se i democratici esigono la
regolazione del debito pubblico, gli operai devono esigere la bancarotta dello
Stato” (Primo Indirizzo al Comitato della Lega dei Comunisti nel 1850)
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