CONTRO LA DEMOCRAZIA
Contributo a una critica dell'autonomia della politica
di Gilles Dauvé e Karl Nesic (2009)
Potremmo interrogarci sul senso dell’ennesima riflessione su un soggetto apparentemente secondario, se paragonato a questioni più urgenti come l’attuale crisi. Tutto sembra in effetti essere stato già detto sulla democrazia, dai suoi nemici e dai suoi cantori o riformatori. È di buon gusto nei paesi capitalistici detti sviluppati denunciare la desuetudine delle pratiche parlamentari e il disinteresse che suscitano. Nessun elettore auspica che il suo voto possa cambiare profondamente la sua vita.
Tuttavia, non appena si avverte che c’è qualcosa in gioco, l’interesse rinasce. Gli USA hanno un bell’essere il paese in cui la politica assomiglia più a uno show e a un business, dove milioni di brave persone si mobilitano per portare la parola dei candidati alla Casa Bianca. Si parla di ampliare il campo della democrazia, di renderla partecipativa, di farla scendere nel quartiere, nella strada, nella scuola, e alcuni sognano di instaurarla nel luogo di lavoro. La democrazia viene vissuta, se non come la risposta a tutti i problemi, quanto meno come la risposta che contiene tutte le altre. Al cospetto della democrazia ogni critica diventa sospetta, ancor più se la critica in questione mira addirittura a un mondo senza classi, senza salariato né capitale, senza Stato. Di solito l’opinione corrente ha moti di comprensione (pur con relativa condanna) per il “reazionario” che disprezza la democrazia, qualora neghi la capacità degli uomini di organizzarsi e dirigersi da sé, perché questo rientra nel gioco delle parti. Ma chi rifiuta il principio democratico nel nome stesso della capacità di auto-organizzarsi, reputando la democrazia inadatta all’emancipazione dei proletari e dell’umanità, costui è destinato a non essere compreso. Nel caso migliore passa per un provocatore amante dei paradossi, nel caso peggiore per un intellettuale traviato che a furia di non apprezzare la democrazia finirà come quelli che più l’hanno attaccata: i fascisti.
Se «l’emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi», sembra evidente che per emanciparsi gli sfruttati, i dominati, i dannati della Terra, debbano respingere ciò che li mantiene in soggezione («né Dio, né Cesare, né tribuni») e per questo creare i propri strumenti di discussione, di decisione e di gestione. E questo esercizio di libertà collettiva non è per l’appunto quel che suole chiamarsi democrazia? La soluzione ha il pregio della semplicità: per cambiare il mondo ed assicurare la migliore vita umana possibile, cosa c’è di meglio che fondarlo su istituzioni che forniscano la più ampia libertà d’espressione e di decisione al maggior numero di persone? In molte delle loro lotte, i proletari, i dominati e gli sfruttati rivendicano la democrazia e proclamano la volontà di instaurare una democrazia infine autentica. La discussione è chiusa, la critica alla democrazia parte battuta in anticipo.
Il cuore del problema
La democrazia si presenta nel contempo l’obiettivo più inaccessibile e più vitale, l’ideale dato per scontato fra gli esseri umani, l’esercizio collettivo della loro libertà. Democrazia come organizzazione della nostra vita sociale determinata insieme al fine di tener conto quanto più è possibile dei bisogni e dei desideri di ciascuno.
Un’obiezione fa capolino: come raggiungere un simile obiettivo fra individui che hanno interessi divergenti, cioè opposti, cosa che si verifica in quasi tutte le società, compresa la nostra? All’ideale democratico ne va dunque aggiunto un altro: bisognerebbe che le decisioni prese in comune lo fossero in condizioni di uguaglianza fra tutti. Per non accontentarsi di una mera uguaglianza politica, per cui i cittadini dispongono di diritti ma non di poteri effettivi, la vera democrazia esige un’uguaglianza socio-economica, senza ricchi né poveri: la ripartizione (e la ri-organizzazione) delle ricchezze permetterebbe una condivisione finalmente giusta del potere di decisione sulle grandi questioni, pervenendo così a una democrazia reale, oltre che formale. Ma, benché la condivisione, pratica umana elementare e raccomandabile, abbia addolcito la questione sociale, non l’ha risolta: nessun profeta, nessun moralista ha mai convinto i ricchi e i potenti a dividere equamente i propri beni e il proprio potere. Ci tocca constatare che questa democrazia reale manca di realtà.
La democrazia è di fatto una contraddizione: pretende di garantire un elemento essenziale che invariabilmente le sfugge. Eppure, ben pochi ne tollerano la critica, tanto più in quanto la democrazia sembra offrire il miglior ambito possibile allo sforzo millenario condotto dagli esseri umani per emanciparsi. È un’ovvietà che ogni resistenza allo sfruttamento, ed ogni tentativo di instaurare un mondo senza sfruttamento, passi per la rimessa in causa del controllo degli sfruttatori sugli sfruttati. Meglio, la lotta contro il regolamento interno di fabbrica, contro le sanzioni assortite di multe o minacce di licenziamento, contro il miscuglio di autoritarismo e paternalismo che costituisce quel che dal XIX secolo si definisce dispotismo aziendale, anche contro la razzia padronale sulle casse di previdenza e di assicurazione, contro la sorveglianza dei luoghi di vita esterni alla fabbrica, non significa soltanto il rifiuto di dipendere da un capetto, da un padrone, da un dignitario religioso, oppure da un dirigente di partito e da un quadro sindacale. Questo negativo contiene del positivo: l’abbozzo di relazioni dirette, non concorrenziali, solidali, il che implica nuove forme di riunione e di decisione. Un movimento sociale è portato a porsi l’interrogativo «Chi comanda?». Altrimenti, senza procedure e strutture differenti da quelle concesse dall’ordine stabilito, chi sta “in basso” si condanna eternamente ad essere trattato da inferiore. Si tratti di comune, comitato, collettivo, consiglio, soviet, o semplicemente assemblea generale, sono tutte forme che esprimono l’auto-riconoscimento reciproco dei partecipanti al movimento: attraverso queste la libertà e la fratellanza sono vissute nei fatti.
Il punto è sapere se tali forme creino movimento, o si accontentino di esprimerlo. Perché la caratteristica della democrazia è di presentare lo spazio-tempo del dibattito e della decisione, non come momento necessario della vita sociale (e cioè di ogni cambiamento positivo), ma come condizione primaria della vita sociale (quindi di ogni cambiamento positivo).
Westminster non è l’Acropoli
La prima condizione per comprendere la realtà chiamata «democrazia» consiste nel rimettere al suo posto, vale a dire nella storia, una parola tanto inadatta a ciò che indica da duecento anni.
I tempi moderni hanno fornito in effetti un nuovo significato a una nozione nata nell’antica Grecia, ed oggi quasi tutti, dall’uomo della strada all’universitario o al militante, definiscono «democrazia» l’Atene del V secolo a.C. e l’Italia o la Svezia contemporanea. Gli stessi che rifiuterebbero — a giusto titolo — di parlare di «economia» preistorica o di «lavoro» in una tribù amazzone, non notano nessun anacronismo nell’indicare con lo stesso termine un sistema in cui la cittadinanza era la capacità (teorica, ma spesso anche effettiva) di governare ed essere governati, ed un sistema in cui la cittadinanza si riassume per il 99% dei cittadini nel diritto d’essere rappresentati.
C’è stato un tempo in cui si era meno reticenti ad ammettere il divario che separava le due accezioni. James Madison, uno dei padri della Costituzione statunitense, operava una distinzione fra una democrazia, in cui «il popolo si incontra ed esercita il suo governo di persona», e una repubblica, vocabolo di origine latina, in cui il popolo «si raduna e si amministra attraverso i suoi rappresentanti ed agenti». L’avvento dello Stato burocratico moderno, temuto da Madison, ha reso la «democrazia» un sinonimo del potere investito nel popolo ed esercitato in suo nome.
La quasi totalità dei commentatori deplorano i limiti della democrazia greca chiusa alle donne, agli schiavi e agli stranieri, e si rallegrano del fatto che il demos moderno si apra a categorie sempre più ampie di popolazione. L’ideale dei democratici radicali sarebbe un demos che racchiuda tutti gli esseri umani viventi su un dato territorio. Significa dimenticare che il cittadino ateniese era tale non in quanto essere umano, ma in quanto co-proprietario della cité, e concretamente in quanto piccolo o grande proprietario fondiario. Il sistema democratico era giunto a gestire in massima parte le contraddizioni di una comunità di uomini (maschi e capi di famiglia) irrimediabilmente divisi da progressive disparità di fortuna.
Proprio perché si limitava ad un gruppo di uomini che dividevano l’essenziale (un dominio sociale reale, pur minato dal maggior accumulo di denaro da parte di alcuni), la democrazia greca poté rimanere, per usare una parola di moda, «partecipativa», non senza crisi o interruzioni. Nell’Europa e negli Stati Uniti di oggi, nulla è paragonabile al demos dei tempi di Pericle.
La nostra epoca riscrive il passato al presente per persuadersi che i popoli civilizzati hanno sempre aspirato alla democrazia. Non è la prima volta che accade. Applicata a società animate dal rapporto capitale/lavoro, la parola «democrazia» ci insegna più su quanto queste società pensano di se stesse che sul loro funzionamento reale.
Sfruttamento e/o dominio
La disuguaglianza, la povertà e la miseria esistono perché alcuni decidono per tutti? Oppure alcuni monopolizzano le decisioni perché sono già ricchi e potenti? Vano interrogativo.
Montagne di libri e di articoli vengono scritti da sempre per confutare la pretesa marxista che «l’economia» sappia spiegare pressappoco tutto. Dipende da cosa si intende ad esempio per economia, distinta come realtà relativamente autonoma solo sotto il capitalismo. In ogni caso, un governo non si spiega attraverso «l’economia», non più di quanto si parta in guerra per restaurare un tasso di profitto. La politica non è un calco dell’economia: nelle democrazie borghesi, i grandi padroni non diventano automaticamente capi di Stato o ministri, e comunque lo sono raramente. La medesima base socio-economica può coesistere in forme politiche assai diverse, perfino opposte. La Germania capitalista è stata guidata da una casta monarchica, da una borghese, da un partito unico nazionalista-razzista, dopo il 1945 dalla borghesia nella parte occidentale e da una burocrazia d’origine operaia nella parte orientale, poi di nuovo dalla borghesia nel paese riunificato. La storia offre molti esempi di non-coincidenza fra autorità politiche e detentori della potenza economica, e di uno Stato moderno governato contro i borghesi, con l’imposizione dell’interesse generale del sistema ai singoli capitalisti. Lo stesso Bismark, durante uno sciopero nella Ruhr, aveva costretto i padroni ad aumentare i salari. Sebbene di solito in Europa il denaro porti il potere, in Oriente ed in Africa spesso è il potere che porta l’arricchimento attraverso l’appropriazione familiare o di clan delle risorse dello Stato, specialmente della rendita o dell’accaparramento del commercio estero. Non c’è bisogno di risalire nei tempi per trovare qualche capo della cité o di Stato imporre la propria volontà ai ricchi per ripulirli: la Russia di Putin ci offre qualche esempio recente.
Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, dirigenti politici e padroni della terra, del commercio e dell’industria si uniscono o formano un tutt’uno. Comandare gli uomini di solito va di pari passo col metterli al lavoro. Le due forme di dominio non divergono di molto: l’una rafforza l’altra. Il potere non genera ciò che lo fa esistere. Se dirigenti politici e detentori (di fatto o di diritto) dei mezzi di produzione raramente si sovrappongono, le società moderne non conoscono sfruttamento senza dominio, né dominio senza sfruttamento, e gli stessi gruppi controllano al tempo stesso, anche indirettamente, potere e ricchezza.
Sfruttare presuppone un controllo su chi viene sfruttato, una imposizione sulle sue condizioni di vita per obbligarlo ad entrare in un rapporto di adattamento al ruolo richiesto. Lo sfruttatore sfrutta solo chi domina, e lo sfruttato deve riconoscerne i termini. Il dominio è una condizione e una forma necessaria dello sfruttamento. La questione di sapere cosa sia venuto cronologicamente e logicamente per primo non è di alcun interesse. Lo sfruttamento non è solo “economico” (faccio lavorare altri per me, al mio posto e per mio profitto), ma è anche “politico” (decido al posto di altri l’evoluzione sociale, orientando così la loro vita). Contrariamente a quanto pensava Castoriadis negli anni 60, la società contemporanea non si divide in dirigenti ed esecutori. Più precisamente, questa divisione si gioca su ciò che struttura il mondo moderno: la relazione capitale/lavoro. Ciò non significa che il mondo si riduca a questa relazione né che essa spieghi tutto. Una impresa non è solo un polo di accumulazione di profitto, è anche un luogo di potere, cioè di dominio: ma esiste solo finché realizza e accumula valore, pena il fallimento. Le società umane in generale, ed il capitalismo in particolare, non si comprendono contrapponendo lo sfruttamento al dominio, ma cogliendone il legame.
Alla base della democrazia: la politica
Se per politica s’intende l’osservazione della società nel suo insieme (ivi compresa la realtà e la questione del potere), e non la somma di “questioni” locali o tecniche, va da sé che ogni cambiamento sociale è politico.
Ma la politica è altra cosa rispetto alla preoccupazione del generale e del globale, poiché paradossalmente fa della totalità una nuova specializzazione, un’attività separata dagli interessi direttamente sociali. Questo ambito riservato al dibattito, alla gestione, alla decisione non è ovviamente precluso alle gerarchie sociali, che però vengono spostate su un terreno in cui non verranno mai trattate in base alle loro cause, ma per le loro conseguenze.
L’apporto storico dell’antica Grecia non è la democrazia — insieme di procedure e di istituzioni che riuniscono i cittadini perché decidano insieme della loro sorte. L’innovazione si situa a monte, in ciò che fonda la democrazia: l’invenzione di uno spazio riservato al confronto, alla decisione e alla gestione, separato dal resto della vita sociale. Questa sfera specifica fa uscire ciascuno dai suoi interessi particolari (individuali o di gruppo) e dunque dalle disuguaglianze di fortuna o di rango, per porlo su un piano in cui goda di un’uguaglianza di diritti con tutti gli altri cittadini. Tale separazione definisce la politica: consapevole della sua innata incapacità di spegnere gli antagonismi, la società li trasporta su un terreno presumibilmente neutro, in ogni caso parallelo, dove i conflitti vengono trattati e generalmente smorzati il più possibile per la perpetuazione del sistema sociale nel suo insieme. Una separazione che viene mantenuta dalla democrazia diretta o popolare, la quale s’illude di superarla con una partecipazione finalmente attiva di tutti: ma far entrare tutti in una sfera separata non sopprime la separazione.
Ogni gruppo umano riflette ed agisce a modo proprio sull’insieme della propria condizione. Ma spetta alle società di classe, sotto mille forme e non senza verifiche ed errori, “l’invenzione” della politica come spazio separato dal resto della società, che esiste e funziona attraverso e per questa separazione che fonda la politica e la definisce. Ovviamente le società sono rappresentate come semplice, evidente e universalmente auspicabile modo di funzionamento che assai poco deve alla natura umana, e tutto alla storia.
La democrazia diretta alla lettera
Secondo i suoi sostenitori, essa ha come obiettivo:
1) Il rispetto della maggioranza.
2) L’espressione delle minoranze, cui è garantito un ampio margine d’azione.
3) La possibilità di una libera discussione, al fine di evitare la coercizione, le pressioni, la violenza: «Innanzitutto, parliamo...».
4) Il primato di una volontà collettiva, non quella di un individuo o di un pugno di individui.
5) Il rispetto della decisione comune.
Esaminiamo questi criteri uno per uno.
1) La regola maggioritaria
Molti movimenti sociali sono partiti da minoranze, anche ridotte. Si obietterà che qui la minoranza assume l’iniziativa di atti che rapidamente diventano maggioritari, e dunque non è vera minoranza. Senza dubbio, ma il fatto mostra la poca pertinenza della maggioranza come criterio.
I partecipanti ad un picchetto di sciopero antepongono i loro interessi e quelli del lavoro in generale agli interessi (immediati, in ogni caso) dei non-scioperanti, e al diritto al lavoro di questi ultimi. I democratici faranno valere che lo sciopero è sostenuto da una forte maggioranza del personale, dimenticando che la democrazia comporta il rispetto delle minoranze. E comunque, dove incomincia la maggioranza? Chi decide a che punto una minoranza cessa di essere tale e diventa abbastanza numerosa da vedersi qualificata maggioranza degna di incarnare una volontà generale? al 51%? al 60%? al 95%?... Decisione maggioritaria (anche ultra maggioritaria) e rispetto delle minoranze non possono servire da criterio.
2) Il diritto delle minoranze
Ogni movimento significativo, rivendicativo o sovversivo, è portato a trascinare nella sua dinamica gli esitanti e a pretendere da loro qualcosa che inizialmente non avrebbero voluto fare. Inutile negare lo scarto o le contraddizioni fra l’insieme della base ed i suoi elementi più risoluti, ma il fatto che questi ultimi assumano l’iniziativa di una lotta non basta a trasformarli in nuova élite dirigente. La burocratizzazione è generalmente un prodotto del riformismo, non viceversa, e non deriva dalle minoranze agenti più che dalle maggioranze consenzienti. Base o quadri, minoranza o maggioranza, non abbiamo dati sufficienti per comprendere una situazione ed intervenirvi.
Del resto, chi approva una decisione ritiene comunque che questa provenga da una maggioranza sufficiente. Mentre, per chi contesta una decisione, una maggioranza non è mai abbastanza tale, e ne chiede una migliore, quantitativamente più numerosa... Tra il 1970 e il 1973, uno degli argomenti della destra cilena (e degli Stati Uniti) contro Allende era di aver raccolto “soltanto” un terzo dei suffragi espressi, superando di “appena” 39.000 voti il suo concorrente immediato, su un totale di circa tre milioni. Il candidato dell’Unità Popolare aveva un bell’essere stato democraticamente eletto, l’opposizione lo considerava illegittimo. Così va la democrazia borghese. Ma anche quella operaia è recalcitrante ad accettare una maggioranza insufficientemente maggioritaria...
3) La libera discussione
È superfluo domandarsi se la parola venga prima, dopo o durante l’atto di rivolta. Nel 1936, nella fabbrica General Motors di Toledo, un’assemblea riunì il personale ma — racconta un testimone — «si sarebbe detto che ciascuno si era fatto la sua opinione prima che una sola parola venisse pronunciata»: lo sciopero con occupazione doveva cominciare, e ogni misura sarebbe stata presa o convalidata dall’assemblea generale degli scioperanti. Quegli operai non agivano come automi senza cervello. Lo scambio di parole era inutile perché aveva già avuto luogo, in centinaia di discussioni e riunioni informali. L’atto scaturito “parlava” da sé.
Se democrazia significa scambio, possiamo ben definire democratica questa pratica, ma non è il principio democratico ad averla resa possibile.
Inversamente, invitare o obbligare nel corso dei conflitti i partecipanti a riunirsi e a parlare interrompe il gesto cominciato e ne smorza lo slancio. Verbalizzare è spesso esplicitare l’atto e rafforzarlo. Spesso è anche trasformare l’energia in discorso. Un’espressione che non è azione e apprendimento equivale a una parola vuota. Allo stesso modo, la ricerca delle “informazioni” nega in generale l’informazione essenziale: la volontà presente di lottare.
Contrariamente al Verbo divino che avrebbe creato il mondo, le parole umane si accontentano di esprimere, di prendere parte, di rafforzare. È già molto. Durante uno sciopero o una sommossa ci si trova certo dinnanzi a delle scelte da fare. Ma non le si affronta come farebbe un filosofo o un ricercatore che passa successivamente al vaglio della ragione diverse ipotesi al fine di decidere senza pregiudizio, lui crede, quella buona. La parola serve prima di tutto per mettere in luce ciò che matura in testa, e per scegliere coerentemente la via migliore.
4) La volontà comune
La democrazia viene considerata una protezione: essa garantisce che i partecipanti non ricorrano alla violenza verbale o fisica, perché i democratici si trattano reciprocamente da eguali.
Se lo scopo richiesto è l’uguaglianza, essa sarà il risultato dell’azione comune, non un condizione preliminare. Invocarla è quasi sempre confessare che si sono già instaurate relazioni discriminatorie. Con la disgregazione della comunità di lotta, ciascuno è rinviato a se stesso, come se il gruppo fosse una somma di libere decisioni da far convergere, ma che non convergono più e non decidono alcunché. A un certo punto ognuno si paragona all’altro. Ciò che erano differenze diventano gradi di superiorità e d’inferiorità che la democrazia misura.
Agire per gli altri non trasforma in leaderini: il burocrate forgia il proprio potere riparandosi dietro una massa di cui sa sposare le oscillazioni. Sempre modesto ai suoi inizi, il burocrate nega ogni ambizione personale e si dice al servizio della base, e uno dei suoi giochi di prestigio è di esserne persuaso. Se non bisogna attendere leader carismatici, non bisogna nemmeno temere le iniziative individuali.
Certo, raramente si ha ragione da soli. Ma privilegiare per principio la comunità ci riporta all’insormontabile dilemma maggioranza/minoranza.
L’intuizione di una possibilità da cogliere non nasce allo stesso ritmo in ciascuno di coloro che condividono una prospettiva. Chi ritiene che sia possibile agire cerca di convincere gli altri, in una discussione in cui gli argomenti posti non sono un semplice esercizio intellettuale, e lo scambio implica verosimilmente un conflitto di volontà. Se la coerenza esige confronto e libertà, non deriva da un incontro su un terreno neutro di argomenti che si tollerano reciprocamente fino a quando il migliore la spunta per superiorità logica.
5) Il rispetto della decisione comune
Tutti sono a favore del rispetto delle decisioni... tranne quando la decisione viene ritenuta non buona. Per cominciare, quale decisione? Nel 1914-15, nel SPD tedesco, per Spartakus e gli altri gruppi a sinistra rispettare la decisione largamente maggioritaria avrebbe significato rinunciare ad un’azione contro la guerra e lo Stato tedesco. È nel nome del voto (approvato dalla base) della totalità della frazione parlamentare socialista, e dei responsabili regolarmente eletti del partito e dei sindacati decisi a sostenere lo sforzo bellico, che l’apparato di partito combatteva gli internazionalisti. A cosa rimanere fedeli: all’approvazione della guerra nell’agosto 1914 da parte dell’immensa maggioranza del movimento socialista, in Germania e altrove? o alle precedenti risoluzioni internazionali che promettevano di rispondere allo scatenamento di un conflitto in Europa con azioni insurrezionali in tutti i paesi belligeranti?
Nel 1968, dopo un primo sciopero (con occupazione) iniziato il 20 maggio, seguito da una ripresa del lavoro votata a forte maggioranza il 10 giugno, la fabbrica Peugeot di Sochaux era stata di nuovo occupata da una minoranza di scioperanti. Quando la mattina dell’11 i celerini sgomberarono violentemente gli occupanti, le squadre di non scioperanti che arrivavano in macchina per riprendere il lavoro si unirono agli scioperanti contro le forze dell’ordine. Gli scontri causarono due morti fra gli operai. Alcune voci evocarono l’uso di fucili da caccia da parte degli insorti e di alcuni morti fra i poliziotti che le autorità avrebbero tenuto segreti. Vere o false, voci del genere attestano la violenza degli scontri e il modo in cui sono stati vissuti: come un confronto diretto con lo Stato.
Così, dopo aver votato la fine dello sciopero, non solo un gran numero di operai non ritornarono al lavoro, ma si unirono agli estremisti rimasti fino a quel momento isolati: la prima occupazione aveva mobilitato solo un migliaio di persone su oltre 30.000 salariati, di cui 3.000 sindacalizzati. Si può certo far valere la scarsa democrazia delle assemblee manipolate dalla CGT, che si tenevano sotto la pressione dei media e sotto la minaccia di una polizia sempre presente. Ma il fatto di contraddire così massicciamente il proprio voto, e senza essersi riuniti nella buona e dovuta forma per deciderlo, mostra che lo spazio-tempo del voto non è mai primario né decisivo, contrariamente a quanto vorrebbe il principio democratico.
L’esame di questi cinque criteri della democrazia diretta mostra innanzitutto che una miriade di atti e di avvenimenti per noi positivi hanno luogo senza partire da essi, e perfino in contrasto con gli stessi; inoltre, che la loro applicazione non può impedire le manovre, le pressioni e le manipolazioni che si ritiene siano in grado di evitare. Questi criteri sono inefficaci.
Il segreto della democrazia
Il partigiano della democrazia diretta rivendica beninteso quei criteri, ma senza esigere né attendere che siano applicati, separatamente o in blocco. Non contesta la maggior parte degli argomenti sopra riportati. Risponde semplicemente che le norme democratiche non vanno considerate assolute. È lo spirito che conta — sostiene — l’intenzione, il principio, lo slancio, il movimento... «poiché la lettera uccide, mentre lo Spirito dà la vita» (Seconda Lettera ai Corinzi, 3:6), e «or se siete guidati dallo Spirito, non siete più sotto la Legge» (Lettera ai Galati, 5:18).
Tutta la democrazia si basa su questo gioco fra lettera e spirito, fra Legge e Spirito. Per Paolo di Tarso, non c’era contraddizione. Ce n’è per la democrazia, che è proprio la ricerca di regole formali per vivere e agire insieme il meglio possibile. Essa è per natura produttrice di diritto, talvolta orale, in genere scritto. Mettendo da parte, anche solo provvisoriamente, il formalismo che la caratterizza, essa contraddice la propria definizione e la propria giustificazione. La democrazia non è la gestione ad hoc della vita sociale. Non si fonda sulla capacità di rapporti umani fraterni, non concorrenziali e non mercantili di creare le forme d’organizzazione che convengono di più. La democrazia fa l’opposto: parte da procedure e da istituzioni che presenta come condizioni preliminari. Afferma che l’organizzazione politica è la base della società. Ma quando l’esperienza prova che le loro norme non operano più, i democratici ci dicono che si può farne a meno, e anche che si deve farlo. La democrazia serve a risolvere i conflitti, ma quando questi sono troppo gravi ci rinuncia.
L’improvviso ricorso al pragmatismo rivela al tempo stesso una mancanza di logica intellettuale, e una notevole logica storica. L’andirivieni fra la lettera e lo spirito è una contraddizione, ma di cui i dirigenti democratici, di destra come di sinistra, hanno l’abitudine di servirsi. Non ignorano che la democrazia debba essere sospesa nei periodi critici. Sospesa in parte, quando i governi francesi antecedenti il 1939 instaurarono la “dittatura repubblicana” dei decreti-legge, quando la Gran Bretagna combatteva l’IRA, ieri nelle colonie e oggi un po’ dappertutto di fronte al “terrorismo”, o per spezzare scioperi che si protraggono troppo a lungo. Talvolta sospesa del tutto, quando in Algeria l’esercito ha annullato la prima consultazione delle legislative del 1991 vinte dagli islamisti, e ha preso il potere col pieno sostegno dei paesi occidentali. Democrazia e dittatura non si contrappongono come il bianco al nero: si distinguono per una serie di gradazioni. Se l’Italia degli anni 1969-77 si fosse rivelata ingestibile dagli abituali meccanismi parlamentari e governativi, la “strategia della tensione” sarebbe stata la soglia prima del passaggio allo stato d’emergenza, prima civile, poi militare in caso di necessità. I borghesi non si fanno scrupoli a diventare temporaneamente dittatori... nell’interesse a lungo termine della democrazia: «nessuna democrazia per i nemici della democrazia». Essendo un male minore, la democrazia si fa un dovere di cessare talvolta di essere democratica per evitare un male peggiore.
La democrazia ha un duplice segreto: prima di tutto, funziona solo nella misura in cui la società rimane democratica; e poi questa tautologia non è grave, perché è scontata, e in due secoli i governi borghesi hanno imparato a servirsene. Per contro, per i sovversivi che prendono la democrazia sul serio e la vorrebbero in permanenza conforme alla sua definizione, vale a dire diretta e autentica, una simile contraddizione è una trappola: vedono nella democrazia una fonte di libertà collettiva, ma non l’otterranno mai da un sistema che non è fatto per questo.
La democrazia è la ricerca preliminare del miglior criterio formale. Fare una priorità della democrazia diretta non assicura che poi ci sia. Ciò che la democrazia — se si vuole mantenere la parola — ha di positivo, non può produrlo da sé.
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Estratti da Contribution à la critique de l'autonomie politique, Troploin, gennaio 2009, trad. it. a cura della redazione di Machete, testo ripreso da: http://mondosenzagalere.blogspot.com/2009/09/contro-la-democrazia.html
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