domenica 27 novembre 2011

Il nuovo capitalismo e la vecchia lotta di classe

IL NUOVO CAPITALISMO E LA VECCHIA 
LOTTA DI CLASSE[1]

Paul Mattick, 1969

Il proletariato o è rivoluzionario o non è nulla
Karl Marx

I
Essendo un prodotto della società borghese, il movimento socialista è legato agli andamenti dello sviluppo capitalistico. Prenderà forme differenti a seconda delle oscillazioni nelle fortune del sistema capitalistico. Ristagna, e quasi sparisce, in momenti e luoghi che non siano favorevoli allo sviluppo della coscienza di classe. In fasi di prosperità del capitalismo, il movimento socialista tende a trasformarsi da rivoluzionario in movimento riformista. In tempi di crisi sociale, può venire completamente represso dalle classi dominanti. 

Poiché il socialismo non si può costruire senza un movimento socialista, è il destino di tale movimento a determinare se il socialismo potrà mai diventare una realtà.
Tutte le organizzazioni operaie fanno parte della struttura generale della società e non possono sempre e coerentemente assumere una posizione anti-capitalista, tranne che sul piano ideologico. Per acquistare importanza e peso all’interno del sistema capitalistico, esse devono essere opportuniste, ossia approfittare dei processi sociali per conseguire i propri scopi, ancorchè limitati. L’opportunismo ed il senso della realtà apparentemente sono la medesima cosa; e il primo non può venire sconfitto da una ideologia radicale che si opponga all’insieme dei rapporti sociali esistenti. Non sembra possibile raccogliere lentamente forze rivoluzionarie all’interno di organizzazioni potenti che siano pronte ad agire in momenti favorevoli. Solo organizzazioni che non perturbino i fondamentali rapporti sociali prevalenti sono in grado di conseguire una certa importanza. Se esse prendono l’avvio da una ideologia di tipo rivoluzionario, la loro crescita implica una conseguente scissione tra la loro ideologia e le loro funzioni. Trovandosi opposte allo staus quo ma essendo parimenti organizzate al suo interno, queste organizzazioni devono alfine soccombere di fronte alle forze del capitalismo a causa dei propri insuccessi in campo organizzativo.
Sembra essere questo il dilemma del radicalismo; per riuscire a qualcosa che possegga peso in campo sociale bisogna organizzare determinate azioni; ma organizzazioni efficienti tendono comunque ad immettersi nei predeterminati canali capitalistici. Per essere in grado di fare qualcosa ora, sembra che si possano fare soltanto le cose sbagliate, e per evitare di compiere passi falsi, non se ne dovrebbe compiere proprio nessuno. I socialisti radicali sono così destinati ad essere degli infelici; sono coscienti del proprio utopismo e non sperimentano altro che dei fallimenti. Fino alla semplice azione di autodifesa degli interessi immediati, le organizzazioni radicali inefficienti porranno l’accento sul fattore spontaneità come mezzo decisivo per la trasformazione sociale. Non essendo in grado di mutare l’organizzazione sociale attraverso i propri sforzi, finiscono col riporre le speranze in spontanee sollevazioni di massa e in un futuro sviluppo delle proprie attività a queste collegate.
Al principio del secolo le organizzazioni operaie tradizionali – partiti socialisti e sindacati – non erano già più movimenti rivoluzionari. Soltanto una piccola ala sinistra all’interno di queste organizzazioni aveva il coraggio di occuparsi di questioni di strategia rivoluzionaria e, perciò, dell’organizzazione della spontaneità. Ciò implicava il problema della coscienza rivoluzionaria e dei rapporti tra la minoranza rivoluzionaria e la massa del proletariato dominato dall’ideologia del capitalismo. Si pensava alquanto improbabile che la massa che la massa dei lavoratori avrebbe potuto agire senza una coscienza rivoluzionaria, unicamente in forza della spinta proveniente dalle circostanze. Tale problema assunse una speciale rilevanza a causa della scissione sopravvenuta nel partito socialdemocratico (tedesco) e della solidificazione del concetto di Lenin[2] della necessità di una avanguardia rivoluzionaria costituita da rivoluzionari di professione. Consapevole delle caratteristiche del fattore spontaneità, Lenin attribuì un’importanza estrema alla necessità speciale di un’attività e di una direzione politica centralizzate. Più i movimenti spontanei dei lavoratori acquisivano forza, maggiore si sarebbe rivelata la necessità di controllarli e dirigerli per mezzo di un partito rivoluzionario basato su di una stretta disciplina. Per così dire, gli operai dovevano venire messi in guardia contro se stessi, dal momento che la loro mancanza di comprensione teorica li avrebbe facilmente condotti a sprecare la forza che avevano spontaneamente accumulato, e quindi a venire sconfitti.
Un’opposizione da sinistra a queste concezioni fu espressa con notevole coerenza da Rosa Luxemburg[3]. Analogamente a Lenin, anche la Luxemburg sosteneva con forza la necessità di combattere il gradualismo opportunista delle esistenti organizzazioni operaie richiedendo un ritorno a politiche rivoluzionarie. Tuttavia, mentre Lenin cercava di conseguire questo obiettivo attraverso la creazione di un nuovo tipo di partito rivoluzionario, Rosa Luxemburg si orientava verso l'aumento del grado di autodeterminazione del proletariato, sia in generale sia all’interno delle organizzazioni operaie vigenti, con l’eliminazione dei controlli burocratici e la partecipazione diretta e attiva della base.
Sia Lenin che Rosa Luxemburg ritenevano che una minoranza rivoluzionaria potesse giungere a controllare la società. Ma, mentre Lenin interpretava questo come la possibilità di edificare il socialismo mediante un partito, la Luxemburg temeva che qualsiasi minoranza, una volta nella posizione di classe dirigente, finisse ben presto col pensare e d agire come la borghesia di un tempo. Essa riponeva le sue aspettative in movimenti spontanei che riuscissero a circoscrivere l’influenza delle organizzazioni politiche che miravano a concentrare il potere nelle proprie mani. Secondo la Luxemburg, compito dei socialisti era semplicemente quella di aiutare la liberazione delle forze creative dei lavoratori nelle azioni di massa, fondendo i propri tentativi con la lotta di classe indipendente del proletariato. La sua concezione dava per scontata l’esistenza di una classe operaia intelligente ed evoluta, in una situazione di capitalismo avanzato, una classe operaia in grado di scoprire coi propri sforzi i modi ed i mezzi della lotta per l’affermazione dei propri interessi, e quindi, per il socialismo, in ultima istanza.
Esisteva però un altro modo ancora di affrontare il problema dell’organizzazione e dello spontaneismo dei lavoratori. George Sorel[4] e gli anarco-sindacalisti erano convinti non solo che il proletariato dovesse emanciparsi da sé senza la guida degli intellettuali, ma anche che esso doveva liberarsi dagli elementi borghesi che in genere controllavano le organizzazioni politiche. Il sindacalismo respingeva il parlamentarismo in favore di un’attività sindacale rivoluzionaria. Secondo Sorel, un governo composto da esponenti socialisti non avrebbe in alcun senso modificato la situazione degli operai; per raggiungere l’emancipazione i lavoratori avrebbero dovuto avvalersi di azioni e di mezzi che fossero soltanto propri. Il capitalismo, asseriva Sorel, aveva già realizzato il compito di organizzare l’intero proletariato nelle sue industrie. Tutto quello che restava da fare, era di sopprimere lo stato e la proprietà. Per ottenere questo obiettivo, il proletariato non necessitava tanto di approfondimenti scientifici delle tendenze sociali, quanto di una convinzione di tipo intuitivo che la rivoluzione ed il socialismo erano l’ineluttabile risultato delle loro lotte portate fino in fondo.
Lo sciopero veniva concepito come l’apprendistato rivoluzionario dei lavoratori. Il crescente numero di scioperi, la loro estensione, la sempre maggiore durata, stavano ad indicare la possibilità dello sciopero generale, il prologo di un imminente rivoluzione sociale. Ciascuno sciopero particolare non era altro che un modellino in scala ridotta dello sciopero generale ed una preparazione di un sollevamento finale. La crescita della volontà rivoluzionaria non poteva essere misurata dai successi dei partiti politici, ma dalla frequenza degli scioperi  e dallo slancio dimostrato in essi dai lavoratori. La rivoluzione si sarebbe sviluppata in azione in un insieme continuo di aspetti spontanei ed aspetti organizzati della lotta del proletariato per l’emancipazione.
Il sindacalismo e la sua figliazione internazionale, come i Guild Socialists in Gran Bretagna e gli Industrial Workers of the World negli Stati Uniti, costituivano, in una certa misura, reazioni alla sempre crescente burocratizzazione del movimento socialista ed alla sua linea di collaborazionismo di classe. Dato che il “marxismo” era l’ideologia ufficiale dei partiti socialisti dominanti nel movimento operaio, l’opposizione a queste organizzazioni ed alle loro politiche, finiva con l’esprimersi come opposizione alla teoria marxiana nelle sue interpretazioni riformiste e revisioniste. Anche i sindacati erano oggetto di un attacco, a causa delle loro strutture centraliste e dell’importanza da essi attribuita a specifici interessi mercantili a spese delle necessità di classe del proletariato. Ma tanto quanto il centralismo dell’ideologia “marxista” non poteva impedire l’ascesa di opposizioni di sinistra all’interno delle organizzazioni socialiste, così la tendenza ideologica decentralista non era in grado di arrestare l’ascesa di tendenze centraliste nel movimento sindacalista. I Guild Socialists cercarono di conciliare questi due estremi distinguendosi in egual misura sia dal localismo dell’anarco-sindacalismo che dalle concezioni del socialismo di stato dell’ideologia “marxiana”.
Le organizzazioni politiche tendono a considerare la propria costante crescita e la propria attività quotidiana i più importanti fattori di trasformazione sociale. Nei partiti social-democratici questi, per l’aumento del numero degli iscritti, l’allargarsi dell’apparato del partito, l’accrescimento dei voti ottenuti alle elezioni e la crescente partecipazione del partito alle istituzioni politiche esistenti, erano tutti visti come passi in avanti verso una società socialista. Negli Industrial Workers of the World, d’altra parte, la trasformazione dell’organizzazione in un unico grande sindacato era concepita anche come un modo per “formare la struttura della nuova società nel guscio di quella vecchia”. Nella prima rivoluzione del ventesimo secolo, tuttavia, sono state le masse di lavoratori senza organizzazione che hanno determinato il carattere della rivoluzione e creato una forma di organizzazione nuova e interamente propria attraverso la nascita spontanea dei Soviet (consigli) degli operai e dei soldati.
Il sistema dei Soviet[5] , nato con la rivoluzione russa del 1905, sparì con la sconfitta di questa rivoluzione, soltanto per ritornare con accresciuta forza nella rivoluzione del febbraio 1917. Furono questi soviet ad ispirare la formazione di organizzazioni spontanee simili nella rivoluzione tedesca[6] del 1918 e, sebbene in minor misura, nei sollevamenti sociali che si ebbero in Italia, Inghilterra, Francia ed Ungheria. Grazie al sistema dei soviet nacque una forma di organizzazione in grado di dirigere e coordinare le attività autonome di masse assai vaste, per obiettivi parziali e per fini generali, rivoluzionari, ed in qualsiasi forma – indipendente, di collaborazione o di opposizione – rispetto alle organizzazioni operaie già esistenti. Il sorgere del movimento consigliare provò che le attività spontanee non sono necessariamente destinate a svanire in informi movimenti di massa, ma possono anche sfociare in strutture organizzative più durature.
I consigli russi, o Soviet, nacquero da una serie di scioperi e dalla necessità che in essi si faceva sentire di disporre di comitati d’azione e di rappresentanze che si occupassero del compito di trattare con le direzioni industriali e con le autorità legali. Gli scioperi, che erano il risultato di condizioni sempre più intollerabili della classe operaia, erano spontanei nel senso che non venivano proclamati da organizzazioni politiche e sindacali esistenti, ma da lavoratori non legati ad alcuna organizzazione i quali non avevano altra scelta che quella di utilizzare il luogo di lavoro come pedana di lancio e come centro dei propri tentativi di organizzazione. Nella Russia dell’epoca, le organizzazioni politiche non possedevano alcuna influenza reale sulle masse degli operai e i sindacati esistevano solo in forma embrionale. In ogni conto, la crescita delle organizzazioni socialiste e sindacali fu alquanto accelerata dagli scioperi spontanei e dai successivi sollevamenti.
Nella sua essenza la rivoluzione russa del 1905 era naturalmente una rivoluzione borghese, appoggiata dalla borghesia liberale allo scopo di distruggere l’assolutismo degli zar, e far procedere la Russia, mediante un’Assemblea Costituente, verso condizioni analoghe a quelle esistenti nei paesi capitalisticamente più avanzati. Nella misura in cui i lavoratori pensavano in termini politici, essi condividevano in gran parte il programma della borghesia liberale. E queste erano anche le posizioni politiche di tutti i partiti socialisti esistenti, i quali accettavano la necessità di una rivoluzione borghese come condizione preliminare per la costituzione di un forte movimento operaio e per la prospettiva di una futura rivoluzione proletaria in condizioni socioeconomiche più evolute. I Soviet erano considerati come strumenti temporanei nella lotta per il conseguimento di specifiche rivendicazioni della classe operaia e per una società democratico-borghese. Nessuno si aspettava che i consigli acquistassero un carattere permanete.
Dal 1906 in avanti, l’iniziativa organizzativa finì nuovamente nelle mani dei partiti politici e dei sindacati. Ma l’esperienza del 1905 non andò perduta. Trockij[7] scrisse:

I soviet erano la realizzazione della necessità obiettiva di un’organizzazione che avesse autorità senza avere una tradizione e che riuscisse contemporaneamente ad abbracciare centinaia di migliaia di lavoratori. Un’organizzazione inoltre, inoltre, che fosse capace di unificare tutte le tendenze rivoluzionarie all’interno del proletariato, che possedesse iniziative e autocontrollo, e che, e questa è la cosa più importante, potesse essere creata nello spazio di 24 ore. 

I soviet attirarono i membri ideologicamente più vivaci, e quindi, in genere, quelli politicamente più pronti, della classe operaia, e trovarono appoggio nelle organizzazioni socialiste e nei primi sindacati. La differenza tra queste organizzazioni tradizionali e i soviet viene spiegata dall’osservazione di Trockij secondo cui:

I partiti erano organizzazioni interne al proletariato mentre i Soviet erano l’organizzazione del proletariato

La rivoluzione del 1905 rafforzò le opposizioni di sinistra nei partiti socialisti occidentali, ma più sul terreno della spontaneità degli scioperi di massa che per ciò che riguarda la forma organizzativa che queste azioni assumevano: Esistevano ad ogni modo delle eccezioni. Anton Panneoek [8] , ad esempio, sentiva che con i soviet:

le masse da passive diventavano attive e la classe operaia diventa un organismo indipendente che raggiunge l’unificazione … Alla fine di questo processo rivoluzionario, esso diventa un’entità duratura di coscienza di classe ed altamente organizzata, pronta ad ottenere il controllo di tutta la società e a prendere in mano il processo di produzione.

Secondo Lenin[9], i soviet erano:

Organi della lotta di massa. Vennero alla luce come organizzazioni di sciopero sotto la spinta della necessità, diventarono presto organi di lotta rivoluzionaria contro il governo. Non furono una teoria o una dichiarazione o considerazioni tattiche o una dottrina di partito, ma fu  la forza degli eventi che trasformò queste organizzazioni di massa in organizzazioni della  rivoluzione.
Mentre Lenin insisteva che il suo partito “ non si doveva rifiutare di usare organizzazioni non di partito o pluripartitiche, quali i soviet” , sosteneva però anche che “ il partito deve comportarsi così per rafforzare la propria influenza sulla classe operaia ed aumentare il proprio potere.[10]
Lenin considerava la rivoluzione russa come un processo ininterrotto che avrebbe portato dalla rivoluzione borghese alla rivoluzione socialista. Egli temeva che la borghesia propriamente detta avrebbe accettato un compromesso con lo zarismo piuttosto che rischiare una rivoluzione democratica che andasse fino in fondo. Toccava quindi agli operai e ai contadini poveri portare a termine la rivoluzione borghese e, contemporaneamente, far crescere il proprio antagonismo verso la borghesia. Lenin vedeva l’approssimarsi della rivoluzione russa anche da un punto di vista internazionale, e pensava anche alla possibilità di un suo estendersi all’occidente, cosa che avrebbe potuto fornire l’opportunità di distruggere il capitalismo russo moderno proprio al suo sorgere. Ma, qualunque fosse l’esito della rivoluzione, il partito bolscevico avrebbe dovuto tentare di controllarla, per spingerla il più possibile nella direzione del socialismo o, quanto meno, verso la realizzazione di una trasformazione in senso democratico borghese radicale della società zarista. Considerandosi l’avanguardia del proletariato, e considerando questo l’avanguardia della  ‘rivoluzione popolare’, i bolscevichi riconoscevano che per conquistare il potere sarebbero stati necessari non soltanto il partito rivoluzionario ma anche delle organizzazioni di massa come quelle costituite dai soviet. Soltanto nel 1917, comunque, il concetto di dittatura del proletariato per mezzo dei soviet fu per un certo periodo la politica ufficiale del partito bolscevico.
Inoltre, la rivoluzione di febbraio fu il risultato di un movimento spontaneo di protesta contro le condizioni sempre più intollerabili di vita durante una guerra fallimentare. Scioperi e manifestazioni si succedevano sempre di più, fino a condurre ad una sollevazione generale, che ottenne l’appoggio di alcune unità militari e portò al crollo del governo dello zar. La rivoluzione riceveva l’appoggio di un ampio strato della borghesia, e fu da questo gruppo che si formò il primo governo provvisorio. Anche se i partiti socialisti e i sindacati non diedero inizio alla rivoluzione, ebbero un ruolo maggiore che non nel 1905. Come nel 1905 anche nel 1917 i soviet non avevano intenzione, inizialmente, di sostituirsi al governo provvisorio. Ma nel corso del processo rivoluzionario essi finirono per avere posizioni di sempre maggiore responsabilità, di fatto, il potere si divideva tra i soviet ed il governo. L’ulteriore radicalizzazione del movimento in condizioni sociali che si andavano deteriorando e le politiche vacillanti della borghesia e dei partiti socialisti diedero presto ai bolscevichi quella maggioranza nei soviet che fu di decisiva importanza, e portarono alla rivoluzione di ottobre che mise termine alla fase democratico-borghese della rivoluzione.
Col tempo, il regime divenne la dittatura del partito bolscevico. I soviet, delegittimati, venivano mantenuti in vita solo formalmente, per nascondere questo fatto. Quali che fossero i motivi di tale mutamento – cosa che non ci compete trattare in questo contesto -, erano proprio i soviet che avevano consentito il rovesciamento sia della borghesia che dello zarismo, e l’instaurazione di un sistema sociale diverso. Non è inconcepibile supporre che in condizioni interne e internazionali differenti i soviet avrebbero potuto conservare il loro potere e impedire l’ascesa di una dittatura autoritaria.
Non soltanto in Russia, ma anche in Germania il contenuto reale della rivoluzione non fu pari alla sua forma rivoluzionaria, però, mentre in Russia si trattava soprattutto di un’oggettiva impreparazione generale alla trasformazione di tipo socialista, in Germania si trattava di una mancanza soggettiva della volontà di costruire il socialismo, a causa dell’adozione di metodi rivoluzionari che furono in larga misura responsabili dei fallimenti del movimento consiliare, sia nell’uno che nell’altro paese. In Germania, l’opposizione alla guerra si espresse nella forma di scioperi nelle fabbriche, che, a causa del patriottismo dei socialdemocratici e dei sindacati, dovevano essere organizzati clandestinamente nei luoghi di lavoro e attraverso comitati di azione che coordinassero le varie fabbriche. Nel 1918 sorsero in tutta la Germania consigli di operai e di soldati che rovesciarono il governo. Le organizzazioni operaie collaborazioniste furono costrette a riconoscere questo movimento e ad entrarvi, se non altro per annacquare le aspirazioni rivoluzionarie. Ciò era tanto più facile in quanto i consigli degli operai e dei soldati erano composti non soltanto da comunisti, ma anche da socialisti, sindacalisti, indipendenti e perfino da aderenti ai partiti borghesi. Per quanto riguarda i rivoluzionari lo slogan:” tutto il potere ai consigli operai” era dunque di tipo difensivo, ameno che, naturalmente, non dovesse cambiare il carattere e la composizione dei consigli.
Ad ogni modo, la gran massa degli operai scambiò la rivoluzione politica per una rivoluzione sociale. L’ideologia e la forza organizzativa del partito socialdemocratico avevano lasciato il loro segno; la socializzazione della produzione era vista come qualcosa che riguardava il governo, non come il compito della classe operaia. Anche se ribelli gli operai erano in generale tali soltanto in senso socialdemocratico e riformista. “Tutto il potere ai consigli operai” implicava la dittatura del proletariato, dato che avrebbe lasciato i settori non operai della società privi di rappresentanza politica. La democrazia, ad ogni modo, era concepita come suffragio universale. La massa degli operai voleva sia i consigli operai sia l’assemblea nazionale. Li ottenne entrambi: i consigli in una forma insignificante, come parte della costituzione di Weimar, e con questa ottenne anche la controrivoluzione, e infine, la dittatura nazista.
Sembra abbastanza ovvio che l’auto-organizzazione degli operai non è affatto una garanzia contro politiche e azioni contrarie agli interessi di classe del proletariato. In questo caso, comunque, queste organizzazioni verranno rimpiazzate da forme tradizionali o nuove di controllo del comportamento operaio da parte di autorità vecchie e nuove. Esse sono destinate a scomparire di nuovo, ameno che movimenti spontanei, che sfocino in forme organizzative di autodeterminazione proletaria, si approprino del controllo della società e quindi delle proprie vite. Con tutto ciò, è soltanto attraverso l’esperienza dell’autodeterminazione, in qualunque modo si attui inizialmente, che la classe operaia avrà la capacità di evolversi verso la propria emancipazione.

II
Quanto detto finora riguarda il passato e sembra essere privo di importanza per il presente, così come per il futuro vicino. Per quanto riguarda il mondo occidentale, nemmeno quella debole ondata di rivoluzione mondiale provocata dalla prima guerra mondiale e dalla rivoluzione russa si ripeté durante la seconda guerra mondiale. Invece, dopo qualche difficoltà iniziale, la borghesia occidentale ora ha il pieno controllo della società. Si vanta di avere una economia di alta occupazione, sviluppo economico e stabilità sociale, che esclude sia la necessità sia il desiderio di una trasformazione sociale. Per sua stessa ammissione, questa è una visione generale, macchiata da alcuni problemi non del tutto risolti, come provato dalla presenza di gruppi sociali pauperizzati in tutti i paesi capitalistici. Si suppone, comunque, che queste macchie saranno cancellate col tempo.
Questa opinione diffusa richiama la divisione tra marxisti ortodossi e revisionisti dell’inizio del secolo sui problemi dello sviluppo capitalistico. La divergenza si manifestò a proposito della questione se il capitalismo avesse o meno dei limiti oggettivi che assicurassero la prontezza soggettiva di fronte ad azioni rivoluzionarie. In tempi di prosperità prolungata era il punto di vista revisionista che apparentemente trovava una verifica, in tempi di crisi era la posizione ortodossa ad avere apparentemente maggiore validità. In generale, quelli che insistevano sul fattore spontaneismo insistevano anche sulla temporaneità del sistema capitalistico e sul suo crollo certo, mentre quelli che ponevano l’accento sull’organizzazione davano per scontata una trasformazione rivoluzionaria della società capitalista in società socialista, trasformazione causata da processi legislativi ed educativi all’interno delle istituzioni democratiche esistenti.
Diversamente da società più statiche, il capitalismo muta continuamente. Il suo processo produttivo, essendo un processo di espansione del capitale, trasforma di continuo il sistema in tutti i suoi aspetti eccetto uno. L’aspetto immutabile consiste nei rapporti di produzione come rapporti tra capitale e lavoro, cosa che permette la produzione di plusvalore e l’accumulazione di capitale. Ci possono essere cambiamenti in meglio o in peggio, tutto dipende dalla produttività del lavoro e del suo rapporto con le esigenze di profitto del processo di accumulazione. Storicamente, il capitalismo è stato un sistema di espansione e contrazione, alternando periodi di prosperità a quelli di depressione, e influenzando così le condizioni della classe lavoratrice in modo negativo o positivo. A lungo andare, secondo la teoria marxiana, sarebbe diventato sempre più difficile per il capitalismo superare i suoi periodi di crisi e la miseria sociale generale ad essi connessa. Ciò avrebbe creato il clima sociale adatto per azioni rivoluzionarie.
Dagli inizi della cosiddetta rivoluzione industriale fino alla seconda guerra mondiale, la prognosi marxiana poteva essere contestata soltanto temporaneamente. Certo, la depressione a livello mondiale del 1929 rafforzò l’opinione secondo cui le contraddizioni inerenti la produzione di capitale devono portare alla sua decadenza e al suo crollo. Ma il modello teorico astratto su cui si basava questa affermazione, mentre rivela la dinamica immanente del sistema, non esclude modificazioni profonde del sistema per mezzo delle quali la sua vita viene prolungata. Le classi dominanti trovarono un modo per uscire dalla depressione della guerra con il mantenimento degli interventi governativi nell’economia post-bellica. In termini economici questo procedimento divenne noto come ‘ rivoluzione keynesiana’. Dato che gli interventi governativi nell’economia assicurarono per quasi due decenni la crescita della produzione e del commercio, ciò alimentò l’illusione che si fosse trovato un modo di fermare la predisposizione del capitalismo alla crisi e alla depressione. I mezzi fiscali e monetari utilizzati furono visti come una sorta di ‘pianificazione’ che poteva assicurare il pieno impiego e la stabilità sociale.
Il ciclo d’affari del capitalismo del laissez faire è stato apparentemente controllato. Non del tutto, comunque, perché esiste ancora la disoccupazione e periodi di recessione punteggiano qua e là la tendenza generale verso l’espansione. Ma le lunghe depressioni accompagnate da disoccupazione su vasta scala sembrano una cosa del passato. Anche se gli effetti molteplici delle depressioni danno adito a molte spiegazioni differenti, dal punto di vista marxiano essi trovano la loro causa principale nel fatto che la produzione capitalistica è produzione di valore; vale a dire, la produzione non è connessa alla necessità degli uomini ma all’aumento del capitale privato. Una data grandezza di capitale deve portare ad una grandezza maggiore: Come si suol dire: senza profitto nessun camino fumerà. I periodi di depressione sono periodi di redditività repressa. Si concludono con un nuovo rivolgimento degli affari quando si scoprono nuovi metodi e mezzi per aumentare la redditività del capitale. Parlare, quindi, della fine del ciclo del capitale implicherebbe che il capitale è ora capace di assicurare all’infinito la propria redditività.
Superficialmente, non ha veramente molta importanza quali spiegazioni si offrano per la crisi del capitalismo. Le merci non devono soltanto essere prodotte, devono anche essere vendute. I profitti ottenuti nella produzione devono essere realizzati nella circolazione. L’anarchia della produzione nel capitalismo spiega le sproporzioni che ostacolano la realizzazione del plusvalore, e porta a scompensi tra investimenti e produttività che ostacolano la produzione di profitti. La crisi del capitalismo si può descrivere come crisi di sovrapproduzione o di sottoconsumo, ciascuno dei quali implica difficoltà nel processo di realizzazione del profitto e quindi difficoltà nel mantenere un dato livello di produzione e il suo ritmo di crescita ‘normale’. La crisi concreta del capitalismo è tutte queste cose contemporaneamente. Quali che siano gli aspetti della crisi generale messi in evidenza, essi sono centrati tutti sul fattore di una riduzione della produzione per mancanza di redditività.
E’ chiaro che nessun capitalista ridurrebbe la produzione fino a che il mercato gli assicura profitti adeguati. Egli diminuisce la produzione e rinvia i nuovi investimenti quando non è più in grado di trovare mercati abbastanza vasti per i suoi prodotti. Ma la crisi del capitalismo è un fenomeno generale che investe tutti i capitali. Ogni capitalista, o ogni società, reagirà alla crisi cercando di mantenere, o perfino di accrescere, la sua parte di mercato che è in diminuzione, attraverso una riduzione dei costi di produzione abbastanza estesa da rimettere in sesto la redditività perduta. Mentre tutti i capitalisti cercano di sfuggire alla situazione di crisi, non tutti ci riusciranno, ma quelli che infine sopravvivono non soltanto avranno aumentato la loro redditività, ma avranno anche allargato i loro mercati, se non altro inizialmente, a spese dei capitali distrutti. E’ attraverso la concorrenza per i profitti e per i mercati che il capitale si concentra e si centralizza, per il miglioramento del processo di accumulazione.
La produzione di capitale è accumulazione di capitale. Il plusvalore, cioè il lavoro non pagato, si trasforma in capitale addizionale. ‘Misurato’ rispetto al totale del capitale investito, dà un certo valore in termini di profitto. Questo valore deve essere tale da permettere la continuazione del processo di accumulazione. Il capitale si divide in investimenti nei mezzi di produzione e investimenti in forza lavoro. Questo è solo un altro modo per descrivere la realtà dell’aumento di produttività del lavoro e dell’aumento del plusvalore. Ma, a meno che il secondo aumenti altrettanto velocemente del capitale totale, e sempre non è così, il valore del saggio del profitto scenderà. Secondo Marx, questa è una conseguenza dell’applicazione della teoria del valore-lavoro al processo di accumulazione del capitale.
Non è necessario entrare in tutte le complessità del meccanismo della crisi capitalistica, dato che non c’è teoria economica borghese che non condivida l’idea di Marx che tutte le difficoltà del capitalismo sono dovute in ultima analisi ad una carenza di redditività e che si può trovare una soluzione ad esse soltanto attraverso un aumento della redditività. I classici, Smith e Ricardo, temevano il declino della redditività, anche se per ragioni differenti da quelle avanzate da Marx. La teoria neoclassica fa derivare la mancanza di occupazione da salari di squilibrio che riducono la spinta ad investire. Visto che la teoria keynesiana è stata universalmente accettata, si può dire che la teoria di Marx della tendenza alla caduta del saggio di profitto come conseguenza dell’accumulazione di capitale è stata adottata dall’economia borghese, quantunque con una terminologia differente. Dove Marx parla di sovraccumulazione di capitale rispetto alla sua redditività, la teoria keynesiana parla della crescente scarsità di capitale e della conseguente diminuzione della sua efficienza marginale. Dove Marx parla di un andamento dell’accumulazione in declino, la teoria keynesiana considera lo stesso fenomeno come una scarsità di domanda effettiva. In entrambi i casi, si tratta di una scarsità di investimenti, causata da bassa redditività.
La moderna teoria economica propone niente di meno che l’integrazione della insufficiente domanda generata dal mercato con una domanda creata dal governo, la quale garantisca un alto livello di occupazione. Per non deprimere ulteriormente la domanda creata dal mercato, la domanda prodotta dal governo deve porsi al di fuori del sistema di mercato. Deve essere non competitiva e contempla in genere spese per i lavori pubblici, gli armamenti ed altri prodotti di spreco. Data la natura imperialistica della concorrenza a livello internazionale, la gran massa della domanda del governo si concentra sugli armamenti e sulle spese militari. In breve le spese del governo sono aumentate per far fronte agli effetti depressivi causati da un ritmo insufficiente di espansione del capitale.
A tal fine, i governi prelevano attraverso le imposte oppure prendono in prestito dalle risorse private, dato che il prestito è, naturalmente, soltanto una forma differita di imposizione fiscale. Ciò conferisce al governo la possibilità di aumentare le sue spese, cosa che, mentre garantisce i prezzi e i profitti di produzione a chi riceve gli appalti dal governo, costituisce una spesa per l’intera società. La parte della produzione totale che comprende, come suoi prodotti finali, le spese pubbliche, non entra nel mercato, perché non c’è una domanda privata di opere pubbliche e di armamenti. E’ una produzione che non dà profitti, nel senso che nessuna parte di essa viene accumulata sotto forma di mezzi di produzione che producono profitti addizionali. Al posto di un’accumulazione di capitale c’è una accumulazione di debito nazionale.
Il plusvalore che finisce al capitale può o essere consumato interamente dai capitalisti o reinvestito in parte come capitale addizionale. Quando viene consumato interamente, predomina la condizione che Marx definisce di riproduzione semplice. Questa situazione è possibile in via eccezionale, ma se fosse duratura, condurrebbe alla fine della produzione di capitale, cioè della sua espansione. A parte il fatto che un capitalismo che non accumuli è un capitalismo in crisi ( perché soltanto per mezzo dell’espansione del capitale la domanda di mercato risulta sufficiente per la realizzazione dei profitti ottenuti nella produzione), la riproduzione semplice non è produzione capitalista. Supponendo che tutto il plusvalore non consumato dai capitalisti finisca nella produzione di armi, il capitale cesserebbe di accumularsi. Forse ci sarebbe un uso pieno delle risorse produttive, ma ciò non indicherebbe un sistema di produzione capitalistico. E’ per questo motivo che una produzione che non dia profitti, dovuta all’intervento pubblico, deve essere limitata, in modo da non escludere un’ulteriore accumulazione di capitale.
E’ ancora per questo motivo che l’aumento della produzione causata dall’intervento pubblico attraverso le imposte e il finanziamento in deficit veniva considerata in genere come una misura di emergenza per affrontare un andamento degli investimenti in diminuzione, diminuzione, considerata essa stessa come un evento temporaneo. A causa della persistenza di una domanda insufficiente, questa misura di emergenza venne accettata presto come una condizione permanente, e la cosiddetta economia mista si sostituì al cosiddetto sistema del laissez faire. Gli interventi del governo nell’economia venivano ora considerati capaci non soltanto di prevenire una tendenza economica alla depressione, ma anche di garantire la stabilità economica e perfino lo sviluppo. Tuttavia l’economia mista è concepita come un economia in cui il settore governativo resta in posizione minoritaria, occupandosi unicamente delle carenze del sistema privato. Se il settore pubblico, che non dà profitti, dovesse occuparsi più rapidamente del settore privato, che dà profitti, si metterebbe in atto una tendenza che condurrebbe al declino della produzione privata di merci. L’espansione del settore pubblico deve frenarsi nel momento in cui una sua ulteriore crescita trasformerebbe l’economia mista in qualcosa di differente.
Intanto, il settore pubblico è finanziato dalle imposte e dai prestiti pubblici, la sua produzione, in ogni caso, non dà profitti, e quindi non dà interessi. Gli interessi del debito pubblico devono essere coperti da nuove imposte e da nuovi prestiti, che riducono la redditività del capitale privato. Per conservare la redditività necessaria  i prezzi vengono aumentati, in modo che i costi dell’intervento pubblico in deficit gravano su tutta la società. La crescita del settore pubblico in deficit gravano su tutta la società. La crescita del settore pubblico si accompagna così all’inflazione, bloccare il processo inflazionistico significherebbe restringere il settore pubblico dell’economia.
Le economie dei paesi occidentali sono comunque in una fase di boom, nonostante e a causa dell’inflazione e della crescita del debito nazionale. La produzione privata e quella statale assommate garantiscono un alto livello di occupazione e di crescita economica, anche se l’andamento della crescita è diverso nei singoli paesi. In parte l’avanzata è spiegabile in modi tradizionali. L’enorme distruzione di capitale in termini sia fisici che di valore durante la seconda guerra mondiale mutò la struttura del capitale internazionale in modo da rendere possibile al capitale un rinnovamento dell’espansione dei profitti. Ciò vale anche per la sua ulteriore concentrazione e centralizzazione, sia a livello nazionale che internazionale. L’estensione del sistema del credito, in particolare attraverso il finanziamento pubblico in deficit, agevolò l’espansione generale della produzione, e i movimenti internazionali di capitale resero possibile una rapida integrazione dell’attività economica nelle nazioni colpite duramente dalla guerra. In ogni caso aumentò soprattutto la produttività del lavoro in modo sufficiente da consentire sia l’accumulazione del capitale sia la ripresa, incoraggiata dal governo, della produzione che era stata danneggiata.
Quindi fino a che si può aumentare la produttività del lavoro in modo sufficiente da garantire il saggio del profitto richiesto malgrado le spese pubbliche crescenti, sono in effetti queste stesse le responsabili dell’alto livello di occupazione, e di condizioni relativamente prospere. Ciò malgrado, a lungo andare, il processo è di tipo difensivo. Pur aumentando il numero assoluto degli operai, il processo di accumulazione del capitale è un processo di smobilitazione del lavoro. Una quantità minore di lavoro deve produrre in proporzione più plusvalore che consente la redditività e l’espansione del capitale. Se da un lato la produttività del lavoro cresce, soprattutto attraverso innovazioni tecnologiche, dall’altro il numero di lavoratori che producono plusvalore diminuisce. Nei termini borghesi, la ‘produttività del capitale’ sostituisce la produttività del lavoro. I profitti, o il plusvalore, non sono nient’altro che pluslavoro; e se il lavoro diminuisce in relazione al capitale accumulato, diminuisce il pluslavoro e, di conseguenza, il plusvalore o profitto.
Dato che la smobilitazione del lavoro è un processo continuo, la crescita della produttività del lavoro ripristina, assieme all’accumulazione del capitale, il meccanismo delle crisi. Non si può mantenere un dato saggio di accumulazione a causa della sua redditività decrescente, richiede un ulteriore aumento dell’intervento pubblico. Ciò, a sua volta, richiede un ulteriore accrescimento della produttività del lavoro, e così via. Si giungerà necessariamente ad un punto ( sebbene sia impossibile predire quando) in cui la produzione che non crea profitto neutralizzerà quella che crea profitto. E questo in misura anche maggiore in quanto la tendenza immanente dell’espansione del capitale è verso una diminuzione del saggio del profitto, anche indipendentemente dalla crescita del settore dell’economia che non crea profitto.
In breve, un semplice aumento della produzione non può sostituire l’aumento della redditività, da cui dipende l’accumulazione del capitale. La prosperità generata in questo modo è una falsa prosperità, che, anche più di ogni reale prosperità, prepara una nuova condizione di crisi, maggiormente distruttiva. Una tale crisi, tuttavia, non potrà più essere incanalata e controllata grazie agli interventi governativi entro l’economia mista. Quando questi interventi avranno raggiunto limiti invalicabili, pena la distruzione del sistema capitalistico di mercato, la crisi si imporrà. In effetti si potrebbe affermare che la crisi della produzione capitalistica sia stata ‘permanente’ fin dalla fine del secolo scorso. Il maggiore o minore automatismo del ciclo di affari proprio del capitalismo dell’Ottocento non ha mai funzionato. Invece è stato attraverso le guerre e l’intervento statale che sono stati introdotti quei mutamenti strutturali che hanno consentito al sistema di resistere.
III.

Il radicalismo di sinistra si è basato su ciò che i suoi avversari riformisti hanno chiamato ‘la politica della catastrofe’. I rivoluzionari si aspettano non soltanto un peggioramento nel livello di vita della classe lavoratrice e l’eliminazione delle classi medie attraverso la concentrazione del capitale, ma anche crisi economiche così distruttive da portare a sommovimenti sociali che alla fine avrebbero prodotto una rivoluzione socialista. Non potevano concepire la rivoluzione che come una necessità oggettiva, e, in effetti, tutte le rivoluzioni sociali si sono verificate in tempi di catastrofe sociale ed economica.
Non stupisce allora che l’apparente stabilità e l’espansione crescente del capitalismo occidentale dopo la seconda guerra mondiale abbiano portato non soltanto all’abbandono dello schietto radicalismo della classe operaia ma anche alla trasformazione dell’ideologia nella prassi del welfare state a economia mista. Questa condizione viene esaltata o criticata come integrazione tra lavoro e capitale, come la nascita di un nuovo sistema economico e sociale, privo di crisi, che riunisce gli aspetti positivi del capitalismo e del socialismo lasciando fuori quelli negativi. Se ne parla spesso come di un sistema post-capitalistico in cui l’antagonismo tra capitale e lavoro ha perso la sua importanza originaria. Nel sistema c’è ancora la possibilità di mutamenti di ogni tipo, ma non si crede più che possa esserci una rivoluzione sociale. La storia come storia della lotta di classe è apparentemente giunta alla fine.
A stupire sono gli svariati sforzi ancora in atto di rendere l’idea di socialismo adeguata a questa nuova situazione. Ci si attende che si possa ancora giungere al socialismo, concepito in modo tradizionale, malgrado prevalgano le condizioni che rendono superfluo il suo prodursi. L’opposizione al capitalismo, che non ha più la sua base sui rapporti di produzione fondati sullo sfruttamento materiale, poggia ora sulla sfera filosofica e morale della dignità dell’uomo e del carattere del suo lavoro. La povertà, si sostiene,[11] non è mai stata e non potrà mai essere un fattore rivoluzionario e anche se lo fosse stato, non lo avrebbe più oggi, quando la povertà è diventata una questione marginale; il capitalismo in generale, è ora in grado di soddisfare i bisogni di consumo della classe lavoratrice. Anche se può essere necessario lottare per obiettivi immediati, tali lotte non costituirebbero più un problema radicale per l’intera società. Nella lotta per il socialismo lo sforzo maggiore deve concentrarsi sui bisogni qualitativi anziché su quelli quantitativi; sono proprio i bisogni qualitativi quelli che il capitalismo non può soddisfare. Diventa necessaria la conquista progressiva del potere da parte dei lavoratori attraverso ‘riforme non riformiste’.
Nondimeno, ‘riforme non riformiste’ è soltanto un altro termine per rivoluzione proletaria. La lotta per un reale ‘controllo dei lavoratori sulla produzione’ è di fatto equivalente al rovesciamento del sistema capitalistico. Resta aperto il problema di come realizzare questo obiettivo quando non ci sono bisogni che spingono a farlo. Il capitalismo esiste perché i lavoratori non esercitano alcun controllo sui mezzi di produzione; se essi acquisiscono tale controllo il capitalismo non esisterà più. Questo obiettivo non può essere realizzato all’interno del sistema capitalistico, e la sua rivendicazione dimostra che esiste ancora l'illusione che il capitalismo sia entrato in una fase di transizione al socialismo, transizione che dovrebbe essere accelerata dalle lotte del proletariato basate su questa spinta generale.
Rimane ancora la questione degli strumenti organizzativi da impiegare per questo obiettivo. L’integrazione delle organizzazioni del proletariato oggi esistenti nella struttura capitalistica è stata resa possibile perché il capitalismo è stato in grado di procurare un aumento del livello di vita della classe operaia. I salari sono costantemente aumentati e in qualche caso alla stessa velocità della produttività. La crescita generale dello sfruttamento non ha impedito ma permesso il miglioramento del livello di vita, e se questa tendenza dovesse continuare non c’è motivo di supporre che la lotta di classe cesserà di essere un fattore determinante dello sviluppo sociale. In questo caso, poiché l’uomo è il prodotto delle condizioni in cui vive, la classe operaia non si formerà una coscienza rivoluzionaria e non avrà interesse a rischiare il suo attuale benessere relativo a favore dell’assenza di certezza della rivoluzione proletaria. Non a caso la teoria di Marx della rivoluzione si fondava sulla miseria crescente del proletariato, anche se questa miseria non doveva misurarsi soltanto sulle oscillazioni della scala salariale sul mercato del lavoro.
Sebbene siano una realtà, i miglioramenti delle condizioni di vita del proletariato nei paesi a capitalismo avanzato sono spesso molto esagerati. I lavoratori stessi ne sono meno coscienti degli apologeti del capitalismo. Tuttavia questi miglioramenti sono stati abbastanza grandi da far estinguere il radicalismo proletario, per quanto fossero troppo insignificanti per modificare la posizione sociale dei lavoratori. Sebbene il ‘valore’ della forza-lavoro debba sempre essere minore del ‘valore’ del prodotto che essa crea, il ‘valore’ della forza-lavoro può comportare condizioni di vita differenti. Si può rappresentare in una giornata lavorativa di dodici o sei ore, in abitazioni più o meno confortevoli, in quantità differenti di beni di consumo. In ogni momento, il livello del salario e il suo potere d’acquisto determinano le condizioni della classe dei lavoratori così come le sue proteste e le sue aspirazioni. Le condizioni migliori diventano abituali e il loro mantenimento è indispensabile per mantenere l’acquiescenza della classe dei lavoratori. Se esse dovessero deteriorarsi, nascerebbe una opposizione operaia, come accadeva per i precedenti abbassamenti del livello di vita, quando era in generale più basso. Il consenso sociale si può perpetuare soltanto se si potrà mantenere, e forse anche migliorare, il livello di vita dominante oggi.
La validità di questa ipotesi, sebbene sia confermata dalle recenti esperienze, non è affatto certa; ma affermare semplicemente che non ha valore sul piano teorico non basta a modificare una pratica sociale basata sull’illusione del suo valore permanente. Vi sono però elementi per sostenere che il meccanismo capitalistico delle crisi si stia riaffermando, malgrado le modifiche varie del sistema. Rispetto alla persistenza di un basso tasso di espansione del capitale privato in America e al calo dei saggi di espansione postbellici in Europa occidentale, già si è fatta strada una nuova disillusione. Mentre i keynesiani di sinistra rispondono a questa situazione in modo tradizionale, chiedendo interventi governativi più vasti, i keynesiani di stretta osservanza chiedono un rovesciamento delle politiche keynesiane, cioè misure deflazionistiche e uno spostamento d’accento dal settore pubblico a quello privato. Entrambe le raccomandazioni distruggono il fondamento logico su cui si basano. L’allargamento del settore pubblico è possibile solo a caro prezzo: a spese del settore privato; l’aumento della produzione che ne conseguirebbe sarebbe accompagnato da conseguenze depressive di un tasso di espansione ancora minore per il capitale privato. La restrizione del settore pubblico potrebbe forse far aumentare la redditività del capitale, ma non garantisce un saggio di accumulazione che assicuri il pieno impiego. La disoccupazione su larga scala imporrebbe un ritorno a spese statali più ampie.
La discussione sul migliore tipo di politica economica è di solito condotta senza considerare la peculiare natura di classe del capitalismo. Mentre alcuni giungono alla conclusione che una economia mista che favorisce più il settore pubblico che quello privato farà aumentare più velocemente il prodotto nazionale, altri sostengono il contrario; come se si potesse giudicare l’andamento dell’economia con il metro della produzione e non della redditività. Si è detto persino che una ‘concorrenza equa’ fra la produzione governativa e l’impresa privata rivelerebbe la superiorità di quest’ultima e evidenzierebbe così la necessità di limitare la crescita del settore pubblico dell’economia. La realtà è, in ogni caso, che non esiste concorrenza, equa o meno, tra questi due settori dell’economia, perché se essa esistesse porterebbe senza dubbio alla distruzione dell’economia fondata sull’impresa privata. A dire il vero, esistono industrie nazionalizzate in tutti i paesi capitalistici, e alcune di esse entrano davvero in concorrenza con le industrie private. Ma esse costituiscono una parte abbastanza piccola dell’intero apparato produttivo, parte che ha dimensioni differenti in differenti paesi, e che in genere è mantenuta ‘concorrenziale’ attraverso qualche tipo di sussidio. Ma, per quanto ampio possa diventare il settore nazionalizzato, esso deve rimanere una parte ristretta dell’economia, poiché altrimenti il sistema è destinato a trasformarsi in un sistema capitalistico di stato.
Per quanto riguarda la borghesia, un sistema di capitalismo di stato equivarrebbe al socialismo, poiché tutti e due presuppongono l’espropriazione del capitale privato. Le tendenze verso il capitalismo di stato all’interno di un’economia mista non portano in questa direzione. Esse hanno lo scopo di difendere, non di contrastare, l’economia dell’impresa privata. Al posto dello stato che organizza l’economia secondo i bisogni della comunità visti dalle rispettive autorità, è il capitale a controllare lo stato e ad utilizzare i suoi poteri per assicurarsi la propria redditività e il proprio dominio sociale[12]. L’integrazione del capitale e del governo trasforma le politiche delle grandi imprese in politiche nazionali ed impedisce un mutamento del suo carattere fino al punto in cui termina di servire le necessità particolari del capitale monopolistico. Risolvere la crisi imminente attraverso ulteriori interventi governativi richiederebbe ora una rivoluzione sociale. Mancando questa rivoluzione, esistono solo le scelte della crisi economica tradizionale, oppure la ricostruzione dell’economia mondiale capitalistica attraverso una guerra.
Armi e altre forme di produzione di spreco non sono un sostitutivo della guerra stessa; esse implicano semplicemente un ‘consumo sociale’ più ampio a spese dell’accumulazione di capitale. La guerra, ad ogni modo, non soltanto distrugge capitale, ma può anche aprire delle vie di espansione ai capitali vittoriosi, cosa che può portare a una conseguente espansione generale del capitale. In linea di principio, ciò non differisce dagli effetti di una crisi sul processo di accumulazione del capitale. Anche qui la distruzione di capitale accelerata prepara il terreno per una ulteriore espansione dei capitali sopravvissuti. La massa di profitto che finisce nelle mani di un capitale momentaneamente più piccolo ma più concentrato fa aumentare l’andamento del profitto, dando così il via ad una nuova fase di espansione. Le guerre capitalistiche sono un fenomeno prevedibile nel quadro del processo di accumulazione concorrenziale a livello internazionale, condotto da entità capitalistiche organizzate a livello nazionale. La forma della concorrenza capitalistica nazionale è un’estensione dei rapporti di classe di produzione entro ciascun paese particolare. Il nazionalismo all’interno del mercato mondiale implica l’imperialismo come estensione del processo di concentrazione nazionale sullo scenario internazionale.
Ad ogni modo, la guerra non può più essere lo strumento, accelerato dalla politica, dell’espansione del capitale. Le forze distruttive del capitalismo moderno sono tali che una effettiva concorrenza capitalistica attraverso la guerra potrebbe distruggere la base materiale della stessa produzione capitalistica. Ciò si esprime nell’ impasse atomico. Proprio come le depressioni del 20° secolo non garantivano più un ritorno alla prosperità e trovarono dunque la loro risoluzione nelle guerre mondiali, così la soluzione della crisi capitalistica attraverso la guerra non può più costituire una possibilità sociale. Le potenze dominanti sembrano comunque restie a sistemare le loro divergenze attraverso una guerra atomica. L’esistenza di un capitalismo in espansione ininterrotta appare essere minacciata ugualmente sia dalla guerra sia dalla depressione.
L’enormità costituita dalla guerra atomica, ovviamente, non può prevenire la possibilità che essa, come ultima risorsa, diventi realtà. La ricerca ‘razionale’ di interessi privati, particolari e nazionali, determina l’irrazionalità del sistema capitalistico nel suo insieme. In questo caso sono gli eventi che dominano gli uomini, e potrebbe benissimo accadere che il mondo capitalistico venga distrutto dai suoi stessi beneficiari piuttosto che dalle sue vittime. In una simile eventualità comunque, i problemi affrontati in questa sede sono irrilevanti, dato che si fondano sull’ipotesi che il capitalismo non si distrugga da sé.
Ormai incapaci di rischiare guerre su ampia scala o di affrontare le conseguenze di vaste depressioni, le politiche delle classi dominanti, a livello nazionale e internazionale, si riducono al mantenimento dello status quo. La stagnazione, ad ogni modo, viola il principio della produzione di capitale, il rivoluzionamento costante dei processi di produzione, con la conseguente trasformazione di tutti i rapporti sociali, eccetto uno. La stagnazione si trasforma in recessione, cosa che indica che il modo di produzione capitalistico sta raggiungendo i suoi limiti storici. Con la diminuzione delle potenzialità della produzione gestita dallo stato cresce il bisogno del capitalismo di garantire la propria redditività quali che siano le conseguenze in termini di instabilità sociale. L’economia keynesiana si rivela capace di rinviare, ma non di superare il meccanismo della crisi insito nel capitalismo.
Nessun sistema sociale crolla da sé. Fino a che non viene rovesciato, le classi privilegiate agiranno dando per scontato che esso è l’unico sistema sociale possibile e lo difenderanno con tutti i mezzi a loro disposizione. Anche se esitanti a far ricorso ad una guerra totale per assoggettare l’economia mondiale alle esigenze specifiche delle potenze capitalistiche dominanti, esse cercheranno sempre di garantire ed estendere il loro dominio con mezzi economici, politici e militari. Ma se non dovessero riuscire a trasformare le spese per questi sforzi in un aumento dei futuri profitti, tali spese saranno semplicemente l’espressione ulteriore del carattere relativamente stagnante della produzione di capitale. E, come il ‘consumo sociale’ causato dalla domanda indotta dovuta alle spese pubbliche, questo ‘consumo distruttivo’ ottenuto attraverso una situazione circoscritta di guerra, nei suoi risultati finali, può soltanto intensificare la crisi della produzione di capitale. A meno che l’analisi marxiana non sia errata – della qual cosa non esiste alcuna prova- le contraddizioni proprie della produzione di capitale, che spiegano espansioni e contrazioni del sistema, e le difficoltà sempre più gravi di superare queste ultime, renderanno senza dubbio inefficaci le varie contromisure tentate dalla borghesia per arrestare la decadenza del capitalismo.
Lasciando da parte le condizioni internazionali esistenti in tutti i paesi capitalistici, le condizioni di quella parte del mondo che non si è sviluppata in senso capitalistico indicano l’incapacità del capitalismo di industrializzare l’economia mondiale. Tutto ciò che il capitalismo è stato capace di produrre è stato un mercato mondiale che subordina i popoli del mondo allo sfruttamento sia delle classi dominanti dei loro paesi sia di quelle dei paesi capitalistici dominanti. Le tendenze verso la concentrazione e la centralizzazione della produzione di capitale polarizzano il mondo in una divisione tra paesi poveri e ricchi, proprio come polarizzano la divisione tra capitale e lavoro all’interno di ogni paese capitalista. E proprio come il processo di accumulazione tende  a distruggere la redditività del capitale nei paesi avanzati, così distrugge anche, attraverso il loro crescente impoverimento, la possibilità dei paesi sottosviluppati di essere sfruttati. Mentre la necessità di ottenere profitti esterni aumenta a causa della diminuzione della redditività all’interno dei paesi capitalistici, la capacità di sfruttare i paesi sottosviluppati diminuisce, provocando dei movimenti sociali che si oppongono al controllo monopolistico del mercato mondiale. La capitalizzazione della parte sottosviluppata del mondo sotto gli auspici dell'impresa privata diventa sempre più problematica per ragioni sia politiche che economiche, Ciò accade in un momento in cui soltanto l’espansione del capitale verso l’esterno potrebbe controbilanciare la sua contrazione all’interno, dovuta all’inevitabile aumento di quei settori che non danno profitti; questo servirebbe ad evitare una situazione di crisi altrimenti ineludibile.
La capitalizzazione ulteriore dell’economia mondiale, anche se necessaria per aumentare la massa del plusvalore al fine di uno sviluppo generale della produzione di capitale, viene ostacolata dalla condizione di monopolio dei capitali esistenti nei paesi sviluppati, che possono permettere uno sviluppo di questo genere soltanto attraverso la loro ulteriore espansione. Le loro esigenze di profitto e di accumulazione impediscono uno sviluppo indipendente del capitale nelle economie arretrate e le trasformano in altri sudditi delle potenze capitalistiche dominanti. Se mai esse potessero avanzare, potrebbero farlo soltanto nella scia dell’avanzata dei paesi ricchi di capitale, e questo soltanto nella misura in cui la loro capitalizzazione faccia da sostegno all’accumulazione di capitale nei paesi capitalistici dominanti.
La pura e semplice condizione di bisogno costringerà necessariamente i paesi sottosviluppati a fare dei tentativi per rovesciare il controllo straniero sulla loro economia e aprire così la strada per il loro sviluppo industriale indipendente. A causa del rapporto di interrelazione tra le classi dominanti di questi paesi e quelle dei paesi imperialisti, ciò presuppone delle rivoluzioni sociali dirette contemporaneamente contro l’arretratezza semifeudale e il capitale monopolistico mondiale. Tali rivoluzioni non possono essere combattute nel nome di un’ideologia capitalistica fuori moda; saranno combattute nel nome dell’indipendenza nazionale e del socialismo, intendendo quest’ultimo come una economia pianificata sotto il controllo del governo. Gli esempi della rivoluzione russa e di quella cinese hanno determinato le aspirazioni dei rivoluzionari dei paesi arretrati, e dove essi hanno successo cercano di eliminare la base sociale dello sviluppo basato sui rapporti di proprietà. Naturalmente uno sviluppo nazionale indipendente è un’illusione perché ogni e qualsiasi paesi è più o meno legato alla divisione internazionale del lavoro nella situazione del mercato internazionale. Si verifica allora un raggruppamento di sistemi sociali più o meno simili, se non altro per superare le condizioni precarie di isolamento nazionale, e quindi una divisione del mondo in due sistemi diversi che producono capitale, in cui l’espansione di uno implica la contrazione dell’altro.
La coesistenza dei due sistemi provocò la speranza che essi si sarebbero alla fine congiunti in un terzo sistema, il quale contenesse elementi di entrambi e conducesse verso un’unificazione dell’economia mondiale. Questa opinione si fonda su un rapporto economico di tipo formale e non tiene conto dei rapporti di classe sottostanti ai due sistemi. Qualsiasi mutamento possano subire, essi rimarranno differenti dato che ciascuno di essi presuppone un insieme diverso di persone con poteri decisionali, e perciò delle differenze decisive nei rapporti sociali di potere. Mentre in uno dei due sistemi, per così dire, il controllo politico è assicurato attraverso mezzi economici, nell’altro lo è attraverso mezzi politici. Ciascuno dei due sistemi implica una diversa classe dirigente e diverse politiche economiche, e questo impedisce una convergenza seria. Al contrario, somiglianze sempre maggiori tra i due sistemi indicano un intensificarsi della concorrenza in termini politici, economici e militari, che concerne non soltanto questioni puramente ‘economiche’ ma anche l’espansione o la contrazione di uno o dell’altro dei due sistemi sociali.
Questo tipo di concorrenza, intrecciata con la concorrenza generale di tutti i capitali e con la concorrenza per l’influenza ed il controllo sui paesi sottosviluppati formalmente indipendenti, minaccia di mantenere il mondo in continua tensione e di divorare una parte sempre più grande della produzione sociale. La produzione capitalistica diventa sempre più produzione a scopi distruttivi, anche se è soltanto attraverso l’accumulazione di capitale che essa può svilupparsi. Ciò che in via eccezionale era possibile nel passato, vale a dire un ritmo di accumulazione molto basso in condizioni di guerra, tende a diventare la regola da cui dipende l’esistenza futura del capitalismo, e indica anche la sua certa decadenza  Con questo, il futuro del capitalismo sarà caratterizzato dalla miseria crescente di masse sempre più vaste della popolazione mondiale, all’inizio dei paesi sottosviluppati, poi nei paesi capitalistici più deboli, infine nelle potenze imperialiste dominanti.
Le prospettive del capitalismo rimangono ancora quelle di cui Marx ci dà le linee generali. Stando così le cose, è semplicemente sensato supporre che quando le crisi latenti diventeranno acute, quando la falsa prosperità porterà ad una vera depressione, il consenso sociale tipico della storia recente darà luogo al risorgere della coscienza rivoluzionaria, tanto più nella misura in cui l’irrazionalità crescente del sistema diventa chiara perfino a strati sociali che traggono ancora dei benefici dalla sua esistenza . Indipendentemente dalle condizioni pre-rivoluzionarie esistenti in quasi tutti i paesi sottosviluppati, e indipendentemente dalle guerre( apparentemente limitate ma tuttora in corso) combattute in diverse parti del mondo, un’irrequietezza generale fa da sottofondo, minandone le basi, all’apparente tranquillità sociale del mondo occidentale, e di tanto in tanto emerge all’aperto come nel caso della recente rivolta in Francia. Quando ciò è possibile in condizioni di relativa stabilità, è certamente possibile in condizioni di crisi generale.
L’integrazione delle organizzazioni operaie tradizionali nel sistema capitalistico è un vantaggio per quest’ultimo soltanto se esso è capace di far fronte ai benefici promessi e reali della collaborazione di classe. Quando queste organizzazioni sono costrette dalle circostanze a diventare strumenti di repressione, esse perdono la fiducia degli operai e quindi il loro valore rispetto alla borghesia. Anche se non vengono distrutte, possono essere dominate da azioni autonome della classe operaia. Esistono prove storiche non soltanto del fatto che la mancanza di un'organizzazione non impedisce una rivoluzione organizzata, come in Russia, ma anche dal fatto che l’esistenza di un movimento operaio riformista molto forte può essere messa in pericolo da nuove organizzazioni della classe operaia, come nella Germania del 1918, e dal movimento degli shop stewards in Inghilterra durante e dopo la prima guerra mondiale. Persino sotto regimi totalitari, certi movimenti spontanei possono portare ad azioni operaie che trovano espressione nella formazione di consigli operai, come in Ungheria nel 1956.
Per riassumere, il riformismo presuppone un capitalismo riformabile. Finché il capitalismo mantiene questo carattere, la natura rivoluzionaria della classe proletaria esiste soltanto in forma latente. Essa cesserà persino di essere cosciente della sua posizione di classe o identificherà le proprie aspirazioni con quelle delle classi dominanti. Un giorno, comunque, la sopravvivenza del capitalismo finirà col dipendere da un ‘ riformismo al contrario’; sarà costretta a ricreare proprio quelle condizioni che portarono allo sviluppo della coscienza di classe e alla premessa di una rivoluzione proletaria. Quando quel giorno arriverà, il nuovo capitalismo somiglierà al vecchio, e si troverà di nuovo, in condizioni diverse, di fronte la vecchia lotta di classe.
    
   
       






 
 



[1] NdR. Questo testo è stato pubblicato per la prima volta in italiano in “Sviluppo economico e rivoluzione” De Donato, Bari (1969). Oltre ad una edizione ciclostilata dei primi anni 70 a cura della rivista “Collegamenti” vi è un’ultima edizione pubblicata dalla rivista “Plusvalore” n 9 del giugno 1991.( pp.95-111)
[2] Che fare? 1902, e Un passo avanti e due indietro 1904
[3] Questioni organizzative della socialdemocrazia russa 1903-1904 in R. Luxemburg “Scritti Politici” Editori Riuniti (1970) p.217-236
[4] Riflessioni sulla violenza 1906
[5] Per la storia dei soviet russi cfr. Orkar Anweller Storia dei soviet 1905-1921 Bari Laterza 1972.
[6] Per il ruolo dei consigli operai nella rivoluzione tedesca cfr. Peter von Oertzen, Betriebsrate in der Novemberrevolution Dusseldorf, 1963
[7] Die Russische Revolution 1905, Berlino 1923
[8] Massenaction und Revolution (Neue Zeit) 1912
[9] La fine della Duma e il compito del proletariato 1906
[10] Risoluzione per il V Congresso del Partito Socialdemocratico del Lavoro
[11] Lo dice per esempio, Andrè Gorz in Strategia del movimento operaio 1964
[12] Per un’analisi descrittiva di questa situazione negli Stati Uniti vedi Who Rules America? Di G. William Domhoff. 1967

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