martedì 15 novembre 2011

PRECARIETA' E DIMENSIONE METROPOLITANA

Precarietà e dimensione metropolitana*
autunno 2011
CONNESSIONI per la lotta di classe

L’accumulazione flessibile
Saper leggere il presente vuol dire innanzitutto prendere coscienza di cosa è oggi l’accumulazione flessibile, cioè l’attuale modello di produzione capitalista. Dove gli elementi spazio-tempo si interconnettono in modo sempre più dinamico.
L’accumulazione flessibile non é nuova accumulazione ma una velocizzazione nello spazio-tempo del processo di accumulazione.
Partiamo dalla definizione di David Harvey :

Il mercato del lavoro ha conosciuto una radicale ristrutturazione attraverso contratti di lavoro resi flessibili per soddisfare i bisogni specifici di ciascuna azienda. Il dato centrale è l’abbandono dell’occupazione regolare a favore di lavori a tempo parziale, temporaneo, in subappalto..
Ne risulta una struttura del mercato del lavoro che vede al centro un nucleo in diminuzione di lavoratori a tempo indeterminato e garantiti con buone prospettive di carriera e riqualificazione professionale e una periferia formata da due sottogruppi di lavoratori a tempo pieno con capacità ampiamente disponibili sul mercato del lavoro (lavoratori manuali, di routine, impiegati…), con minori capacità di carriera e ad alta rotazione e un gruppo di lavoratori flessibili, part time, occasionali, etc. in notevole crescita.
Il cambiamento più radicale riguarda la crescita del subappalto e del lavoro temporaneo.
La trasformazione ha riguardato anche l’organizzazione industriale (subappalto e reti di network) che mettono in crisi le forme organizzative della classe operaia. L’organizzazione industriale diventa di tipo paternalistico. La coscienza di classe si sposta dal rapporto diretto capitale-lavoro ai “conflitti interfamiliari e di clan” che reggono relazioni sociali gerarchiche (la piccola fabbrica a gestione familiare che lavora su ordinazione con il capitale multinazionale).” La crisi della modernità (D.J. Harvey)

L’accumulazione flessibile sembra quindi essere una semplice coordinazione delle due strategie fondamentali di acquisizione del plusvalore descritta da Marx:

1.      Acquisizione di plusvalore assoluto, basata sull’estensione della giornata di lavoro in relazione al salario necessario per garantire la riproduzione della classe operaia (orario più lungo, erosione del salario reale, spostamento del capitale aziendale in regioni a basso salario).
2.      Acquisizione di plusvalore relativo, attraverso cambiamenti tecnologici ed organizzativi che permettano profitti dovuti all’abbassamento dei costi dei beni che definiscono il livello di vita dei lavoratori. Porta in primo piano l’importanza di una forza lavoro estremamente specializzata e con una capacità di comprensione e gestione delle nuove modalità tecnologiche e di orientamento al mercato.
Le due strategie si combinano: l’uso di nuove tecnologie libera eccedenze di forza lavoro che permettono l’uso di strategie di acquisizione di plusvalore assoluto e la diffusa rinascita di sistemi di lavoro domestici, familiari, paternalistici.” La crisi della modernità (D.J. Harvey)

Quindi riprendendo la schematizzazione proposta da Harvey possiamo enunciare le caratteristiche principali dell’attuale fase dell’accumulazione flessibile.

Nell’accumulazione flessibile: il capitale ha rotto i limiti di spazio contraendo il tempo di produzione e circolazione del plusvalore. L’organizzazione del processo produttivo opera con una divisione sociale del lavoro diffusa nello spazio in cui ai tradizionali metodi di controllo tecnici gerarchici si aggiunge la capacità di gestire i meccanismi di mercato.
Gli strumenti e le specificità principali sono:
-La capacità di acquisizione e uso dell’informazione in tempo reale e standardizzata attraverso l’uso di tecnologie informatiche;
-La socializzazione spinta della produzione tramite il decentramento le esternalizzazioni e la riorganizzazione del processo produttivo complessivo in unità orizzontali controllate da gerarchia mediata dal mercato. Nella divisione sociale del lavoro, così determinata, la singola unità produttiva passa dalla dimensione di reparto di una fabbrica a fabbrica essa stessa, con produzione specializzata ma facilmente convertibile.

Questi semplici accorgimenti riorganizzativi hanno agito da “influenze antagonistiche che contrastano o neutralizzano l’azione della legge generale” della caduta del saggio di profitto. Infatti il capitale con  l’accumulazione flessibile acquisisce maggiore capacità di reagire velocemente alla variabilità dei mercati con modificazioni rapide degli assetti economici e produttivi. Questo è fatto grazie alla esternalizzazione, standardizzazione dei processi e dei prodotti e alla cartolarizzazione dei titoli di proprietà. Questi fattori facilitano le dismissioni e i nuovi avviamenti di singole unità produttive. Inoltre la singola unità produttiva anche se limita la gamma dei prodotti riduce la variabilità e l’alea dei profitti perché ha un mercato settorialmente e geograficamente diversificato. Con la specializzazione risultante dalla riorganizzazione dei processi produttivi le economie di scala sono tarate sull’intero mercato e non sulla singola fabbrica o settore. Aspetto ancora più significativo è la possibilità di concentrare il singolo capitale nella porzione del processo produttivo che realizza il maggior profitto, notoriamente le fasi progettuali e a più alto contenuto tecnologico. Inoltre si assiste al  proliferare delle funzioni dirigenziali necessarie alle diverse unità produttive con l’estensione del ceto medio (che con l’attuale stagnazione derivante dalla crisi continua a essere oggetto di un declassamento reddituale), e contemporaneamente, nei paesi più industrializzati, a un forte risparmio di manodopera nei settori industriali con un crescente spostamento di occupazione nella circolazione. Il capitale finanziario ha vissuto un processo inverso, infatti grazie a una crescente centralizzazione si confronta con un capitale fisso e variabile di ordini di grandezza inferiori. Questo riduce i limiti alla speculazione, e alla massimizzazione dei profitti da essa realizzata, insiti nel ciclo di valorizzazione del capitale fisso e variabile.

Per quanto non perfetta tale categoria ci sembra più appropriata di quella, più diffusa, di post-fordismo, che definisce solo in negativo, ci dice che la realtà attuale vien dopo un’altra e riduce la fase precedente agli aspetti connessi all’organizzazione del lavoro, necessari per l’affermarsi dello ”stato sociale” keynesiano, trascurando, inoltre, come produzioni tutte fordiste occupino masse operaie crescenti delle aree di nuova industrializzazione.

Nella fase attuale l’ accumulazione flessibile è caratterizzata dalla stagnazione dell’accumulazione e dalla flessibilità nella produzione, infatti,l’incapacità di un cospicuo aumento della produttività ha dato un freno alla accumulazione nel momento in cui il tempo ormai contratto della circolazione ha raggiunto il suo limite, rendendo inefficace le cause antagoniste alla caduta del saggio medio di profitto..

            La tendenza alla caduta del saggio medio di profitto non provoca il crollo del capitalismo automaticamente, ma spinge il capitale ad un processo rivoluzionario radicale, che riguarda le basi stesse del modo di produzione. Questo significa che la rivoluzione industriale che parte dalla crisi degli anni '70, trasforma radicalmente il modo di produzione capitalistico, con l'automazione del controllo sul lavoro. Possiamo schematizzare questa trasformazione nel modo seguente:
            a) La sottomissione formale del lavoro al capitale, passò attraverso l'industrializzazione, cioè l'originaria automazione della capacità manuale (gli strumenti, la manifattura).
            b) La sottomissione reale del lavoro al capitale, passò attraverso la prima rivoluzione industriale, cioè l'automazione del moto (le macchine, la fabbrica). Il modello fordista-keynesiano porta al pieno sviluppo questa fase.
            c) L'accumulazione flessibile rappresenta una nuova rivoluzione industriale, che passa attraverso l'automazione del controllo, l'incorporazione della scienza (Marx lo chiama General Intellect) nel capitale fisso.

            Una precisazione però è da fare: l'automazione del controllo significa automazione delle funzioni fisiche del cervello (calcolo logico e memoria) non delle attività mentali ideative volontarie. La creatività in senso stretto rimane off-limits per la tecnologia informatica, e abbiamo buone ragioni per credere che lo rimarrà sempre. A dispetto di tutte le cyber-ideologie informatiche, è fondamentalmente errato, da un punto di vista materialistico, parlare di “Intelligenza Artificiale”, in quanto nessuna macchina, per quanto sofisticata -proprio perché basata su una logica formale, che esclude le contraddizioni- può riprodurre la dialettica del pensiero umano, almeno fino a quando non verranno prodotti quelli che la letteratura fantascientifica chiama “replicanti”, cioè macchine che imitino in tutto e per tutto l’uomo.
            Con l'estensione alle funzioni di controllo, la prevalenza del lavoro morto sul lavoro vivo compie un salto di qualità, acuendo l'antitesi fra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. Infatti, questo significa la fine del lavoro "in cui l'uomo fa ciò che può lasciar fare alle cose in vece sua". Mentre la forza-lavoro resta l'unica merce il cui consumo crea valore. Questa contraddizione impone al capitale nuove forme di comando sul lavoro.

L’accumulazione flessibile nell’attuale fase è quindi la fine dell'accumulazione di capitale fisso di lungo periodo, la fine degli investimenti a lungo termine e la loro quasi integrale sostituzione con investimenti occasionali miserandi e, soprattutto, con l'investimento in capitale puramente speculativo anche e soprattutto da parte dei capitalisti produttivi. La precarizzazione del lavoro non è altro che l'aspetto della precarizzazione dell'intero sistema economico, dove emergono non tante nuove figure ma acquisiscono una maggiore dinamicità sociale.

L’esercito industriale di riserva

Marx nella legge generale e assoluta dell’accumulazione capitalista (1) spiega come l’esercito industriale di riserva, incrementa contemporaneamente il volume assoluto della classe lavoratrice e la forza produttiva del suo lavoro. L’esercito industriale di riserva viene suddiviso da Marx in tre forme definite dal rapporto fluttuante tra occupazione/non occupazione: fluido, latente e stagnante.
            Con fluido intendeva i lavoratori non più giovani, prima impiegati in rami d’industria che li espellono con l’aumentare dell’età. Lavoratore che “(…) precipita nelle file degli operai in soprannumero oppure viene spinto da un grado più alto a un grado più in basso”. Possiamo oggi identificare questo settore con tutti quei lavoratori espulsi dall’organizzazione del lavoro legata ai vecchi concentramenti industriali e non solo, che per reinserirsi nell’attuale contesto lavorativo sono costretti a ricollocarsi attraverso la precarietà, la flessibilità e la bassa qualifica. Ne sono parte a tutti gli effetti i lavoratori in cassa-integrazione e mobilità.
            Con latente, definiva “una parte della popolazione rurale”, quella che “si trova costantemente sul punto di passare fra il proletariato urbano (…), e in agguato per acciuffare le circostanze favorevoli a questa trasformazione.” Questa popolazione rimane latente fino a quando “(…) i canali di deflusso si schiudono in maniera eccezionalmente larga. L’operaio agricolo viene perciò depresso al minimo del salario e si trova sempre con un piede dentro la palude del pauperismo.” Oggi il rapporto città/campagna possiamo rivederlo nella migrazione ancora esistente dal sud al nord d’Italia e nella immigrazione extra-nazionale.
            Con stagnante identificava “(…) una parte dell’esercito operaio attivo, ma con un’occupazione assolutamente irregolare.(…) Le sue caratteristiche sono: massimo tempo di lavoro e minimo di salario.” Oggi è quindi quella massa di lavoratori atipici, ormai “tipici” nell’estensione della contrattualistica precaria.

Quindi lo stesso esercito di riserva rappresenta una porzione di lavoro latente o direttamente occupato nella precarietà.

Così come al tempo di Marx la categoria statistica era il pauperismo (povertà), oggi troviamo la disoccupazione, introdotta con l’avvento del keynesismo. Entrambe la categorie statistiche presentano il capitalismo come un sistema perfetto, pauperismo e disoccupazione sono letti come ritardi nello sviluppo, come un cattivo funzionamento del sistema. Al contrario per Marx, l’esercito industriale di riserva e la sua pauperizzazione sono un tratto distintivo, non eliminabile, del processo di accumulazione capitalista.

L’accumulazione flessibile ci porta a ragionare delle modificazioni nel rapporto tra occupazione e non-occupazione. La domanda di lavoro (compreso l’auto-impiego) è determinata dal livello di investimento e dal lavoro che si richiede per mettere a funzionare le macchine. Un tratto dell’economia capitalista è che la domanda di lavoro è sempre inferiore all’offerta di lavoro, e la “disoccupazione” diventa tratto permanente del funzionamento del sistema. Questo anche perché il capitalismo non può funzionare senza meccanismi di coercizione sui lavoratori: ricatto occupazionale, precarizzazione, ecc…
Oggi l’esercito di riserva aumenta nei paesi centrali con l’addizione di immigrati alla popolazione attiva. In questi paesi negli ultimi anni, lo scarso recupero di produttività associato a un cambiamento tecnico del capitale fisso, concentrato nei punti dei processi produttivi caratterizzati da una maggiore creazione di plusvalore, ha spinto in alto la composizione organica del capitale dei settori tecnologicamente avanzati con il risultato di una maggiore riduzione della richiesta di lavoro e dell’occupazione. La domanda di lavoro si è principalmente contratta nel manifatturiero e nei settori con maggiore capacità di creazione di plusvalore relativo, determinando saggi di plusvalore insufficienti alla crescita dei profitti. Si spiega in questo modo come con l’accumulazione flessibile si è pervenuti al fenomeno dei working poors (lavoratori pauperizzati), cioè lavoratori che pur con regolare contratto di lavoro percepiscono un salario insufficiente a superare la soglia della povertà, dentro una più generale deregolamentazione dei rapporti di lavoro e occupati in settori più disparati. Accanto quindi ai non-occupati strutturali vi è oggi una massa di persone con lavori precari intermittenti e con una alta mobilità. Si arriva ad una trasformazione dell' esercito industriale di riserva nel settore preponderante della classe lavoratrice, mentre si fanno sempre più frastagliati e mutevoli i confini fra i settori attivi e di riserva.

Macchine/tecnologia e lavoro

L’aumento dell’esercito di riserva e la relativa pauperizzazione del lavoro, non è da metter in relazione con l’esclusione dei lavoratori a causa dello sviluppo delle macchine. Ogni progresso tecnico si fonda sul fatto che il lavoro diventi più produttivo, che esso cioè in rapporto ad un dato prodotto venga risparmiato. Che la macchina comporti l’esclusione di lavoratori, è un fatto inconfutabile, poiché esso risulta dalla funzione della macchina, come di un mezzo di produzione che risparmia lavoro. L’esclusione dei lavoratori, l’origine dell’esercito di riserva, non è provocato ineluttabilmente dall’avvenimento tecnico dell’introduzione delle macchine, ma dalla valorizzazione (2) insufficiente, che subentra nei livelli progrediti dell’accumulazione, dunque da una causa che risulta esclusivamente dal modo di produzione capitalista nella sua specificità. I lavoratori vengono esclusi, non, perché essi sono soppiantati dalle macchine, ma perché ad un certo livello dell’accumulazione di capitale il profitto diviene troppo piccolo e dunque non rende, e il profitto perciò non perviene a procurare le macchine richieste (3).

la rivoluzione microelettronica ha toccato pochi settori e non in profondità. Nessun mutamento tecnico radicale può essere di natura puramente elettronica. Indem in peggio con le biotecnologie che resta un business piuttosto marginale. Il sorgere di nuovi settori informatici-eletronici-telecomunicativi-biotecnologici, con il relativo boom di investimenti, non ha compensato il declino generale ovvero dei restanti (e tradizionali settori). Il presunto boom degli anni 80 non ha radici nello sviluppo della elettronica bensì nella finanza e nell’espansione creditizia. L’enfasi posta sulla presente rivoluzione microelettronica dimentica precisamente le grandi ondate di crescita e trasformazione tecnico-produttiva del passato. Gran parte dell’apparato produttivo infrastrutturale e scientifico-culturale che il mondo ha oggi a disposizione è stata creata nel periodo di boom della fine della guerra alla metà degli anni 70 (Paolo Giussani, Punti provvisori, doc. ciclostilato)

Il mito dello sviluppo tecnologico, nasconde la contraddizione sempre più evidente tra forza produttive e rapporti di produzione, e al tempo stesso nasconde il ruolo di comando che si esercita su di esse. La mitologia della fine del lavoro salariato attraverso lo sviluppo dell’informatica, si è tramutata in nuove fasce di lavoratori salariati, dove il comando sul lavoro se mai è aumentato e non diminuito. Dove esiste massa di precari del terziario, dell’industria, dell’economia grigia esclusi sempre più dalla stessa vita sociale del paese, che diventano lavoratori flessibili dentro uno schema di produzione flessibile incatenati a queste moderne macchine industriali.

La dimensione metropolitana

L’accumulazione flessibile si lega al nuovo ruolo dei concentramenti metropolitani, come immagazzinamento di forza lavoro precaria. Se la precarietà non è più elemento secondario, ma diventa elemento centrale dentro il rapporto capitale-lavoro, la dimensione metropolitana propriamente intesa è il paradigma del presente. Il mondo è sempre più piccolo, le zone rurali sono sempre più spopolate, le metropoli sono sempre più estese e connesse fra loro con reti di trasporto e comunicazione. L’accumulazione flessibile, e la relativa produzione flessibile attraverso il binomio flessibilità/precarietà provoca una ulteriore polarizzazione sociale, con la costituzione di nuovi dannati della metropoli, estremamente mobili, accorpando settori di classe operaia “tradizionale”, vari comparti dell’esercito industriale di riserva, in cui confluiscono i working poors, studenti senza prospettive, e fasce di sotto-proletariato dentro meccanismi di lavoro criminale. Fourier e Marx definivano le fabbriche ergastoli, oggi l'ergastolo si estende all'intero territorio metropolitano, questa è la condizione perché l'industria flessibile cresca in termini di produzione di valore riducendosi in termini di occupazione. Anche una cantina di 50 mq. diventa idonea a produrre cavi elettrici per l’industria elettronica, ammassandovi qualche decina di lavoratori, svincolati da ogni tutela legale o contrattuale, da ogni vincolo di continuità del rapporto di lavoro, minimizzando i salari e massimizzando il profitto, cosi come avviene in un call center o in una cooperativa di servizio. Queste forme di nuovo schiavismo industriale sono il motore della competizione capitalistica. La metropoli diventa elemento di immagazzinamento di forza lavoro e al medesimo istante di esclusione sociale. Esclusione sociale accentuata anche dentro i tratti urbani delle metropoli, in quanto vi è una connessione sempre più accelerata degli aspetti legati al tempo e allo spazio del capitale.

In seguito allo sviluppo del capitalismo, nelle città crescono sempre più gli appezzamenti di terreno destinati alla costruzione di banche, depositi e altri palazzi del genere, di palazzi per i grandi commercianti oppure alla costruzione di luoghi di piacere per i ricchi. Gli operai invece nello stesso tempo sono cacciati negli angoli peggiori e più affollati e costretti ad abitare in molti in topaie cadenti, sporche e col tetto sfondato, brulicanti di topi, dove prosperano le malattie contagiose e prive addirittura di aria e sole sufficiente”, (Xu He Trattato di economia politica)

Che avrebbe portato di lì a poco, attraverso lo sviluppo dell’accumulazione flessibile a quello che prenderà il nome di gentrificazione. I processi di gentrificazione riguardano le zone con un certo degrado da un punto di vista edilizio e con costi abitativi bassi. Nel momento in cui queste zone vengono sottoposte a “restauro” e “miglioramento urbano”, affluiscono nuovi abitanti ad alto reddito che espellono i vecchi abitanti a basso reddito, i quali non possono più permettersi di risiedervi. In alcuni casi limite si arriva a vere e proprie cittadelle per ricchi militarizzate dove è vietato l’attraversamento dei “poveri”, i soli che possono entrare, oltre ai residenti benestanti, sono i lavoratori di servizio e le guardie armate a protezione della cittadella, come racconta il film messicano La Zona, di Rodrigo Plà del 2007.

Già Marx vedeva nella stessa morfologia urbana, attraverso l’agglomeramento degli operai, un presupposto essenziale per realizzare il risparmio che deriva dalla concentrazione dei mezzi di produzione e dalla loro utilizzazione di massa nelle metropoli.
Il capitale, scrisse Marx, nei Lineamenti fondamentali, deve “tendere ad abbattere ogni ostacolo locale che si frappone al traffico, ossia allo scambio, e conquistare la terra intera come suo mercato” per arrivare “ad annullare lo spazio per mezzo del tempo”. Il risultato è che il mondo del capitale ha sviluppato la tendenza a produrre una compressione “spazio-temporale”, una realtà in cui il capitale si muove sempre più rapidamente e in cui le distanze di interazione vengono sempre più accorciate, dove la dimensione geografica metropolitana diventa paradigma e tendenza del capitale stesso,perché racchiude questa compressione.
Oggi nell’accumulazione flessibile e nella relativa flessibilità produttiva, l’accelerazione della corsa all'addensamento non è motivata dalla scarsezza di spazio, ma dalle esigenze stesse del modo capitalista di produzione, che inesorabilmente spinge avanti la sua scoperta del lavoro in masse di uomini attraverso un rinnovato rapporto tra spazio e tempo. Oggi, con la nuova organizzazione del lavoro basata su una produzione flessibile, adeguata alle oscillazioni del mercato, con le scorte ridotte al minimo,  la metropoli consente di sostituire agli stock di merci, gli stock di forza lavoro. Inoltre la dimensione metropolitana, il suo impetuoso modificarsi sul piano dello spazio,  prova a riassorbire il capitale eccedente. La progettazione di spazi vitali e la creazione di una dimora che diventa un ambiente sicuro chiamato casa hanno sul territorio un impatto altrettanto vasto quanto quello prodotto dall’accumulazione del capitale, anche laddove la creazione di tali spazi diventa un importante veicolo per la produzione e l’assorbimento dell’eccedenza. La produzione dell’”urbano”, dove vive oggi la maggior parte della crescente popolazione mondiale, è diventata col tempo sempre più strettamente intrecciata all’accumulazione del capitale, al punto che è difficile dividere l’una dall’altra. Intendiamo quindi la metropoli non come nuovo rapporto sociale capitalista, ma come luogo dove questo rapporto acquisisce nuova importanza.

I dannati della metropoli

Utilizziamo la categoria di dannati della metropoli perché coglie due elementi sostanziali: la dimensione della esclusione e ghettizzazione, ovvero la precarietà sociale diffusa e il luogo dove si materializza in modo estensivo, la metropoli. Questa definizione, “dannati della metropoli”, volutamente lirica,  non impedisce di considerare questi come lavoratori, siano essi legati al settore della produzione o della circolazione o anche esercito industriale di riserva.

Fino a trent’anni fa la classe operaia industriale propriamente detta in occidente veniva vista come capace di assumere in sé tutta la classe, e questo era già forse all’ora deficitario rispetto al rapporto che esisteva tra classe operaia ed esercito industriale di riserva. Cosi come esisteva una stratificazione sociale all’interno della stessa classe operaia industriale. Una tale impostazione non si basava su un dato quantitativo, la classe operaia industriale propriamente detta è sempre stata minoranza rispetto all’insieme del proletariato, ma su un dato qualitativo, poiché si riteneva che ricopriva un ruolo d’avanguardia sommando elementi oggettivi, la parte più avanzata del ciclo produttivo, con elementi soggettivi, il settore di classe che si concepiva da un punto di vista politico. Oggi sono le figure del terziario avanzato che di fatto assumono da un punto di vista oggettivo la dimensione più avanzata nel ciclo produttivo allargato su scala mondiale, mentre la produzione industriale propriamente detta lentamente si sta spostando da nord verso sud, da ovest verso est. I lavoratori del terziario avanzato non hanno, però, la capacità di divenire soggetto egemone. In questo agiscono diversi fattori, come ad esempio la parcellizzazione del lavoro che rende più difficoltosa la creazione di una dimensione comune. In questo senso la presunta centralità di un settore rispetto ad un altro diventa difficile da “governare” politicamente, ed è anche per questo che gran parte dell’impianto della sinistra si è oggi arenato.

La produttività del lavoro è giunta a un punto in cui gli operai effettivamente attivi nella produzione costituiscono soltanto una minoranza dell’intera classe operaia (se si considera la tendenza), mentre quelli occupati nella circolazione o altrove rappresentano la maggioranza. Ma anche i lavoratori attivi fuori dalla produzione appartengono alla classe lavoratrice. La divisione in classi è determinata dai rapporti di produzione, non dalle trasformazioni della tecnica e dalla divisione del lavoro che ne deriva. Se mai saranno i dannati della metropoli, quelli che maggiormente subiscono la contraddizione di classe ad essere il soggetto principalmente più attivo dentro lo scontro, e hanno il ruolo di rappresentare sul piano della stratificazione sociale una tendenza sempre più maggioritaria legata all’accumulazione flessibile e alla sua accelerazione dovuta ai processi di crisi.
Dove la loro stessa parcellizzazione del lavoro può trovare l’elemento di coagulo dentro il binomio metropoli-precarietà, consentendo la sintesi tra operai multinazionali, ovvero quello che resta della produzione industriale classica, ed i working poors essenzialmente del terziario. Ma anche in questo caso rappresentano unicamente una porzione, possibilmente quella predisposta sul piano soggettivo ad esercitare in forma diretta la lotta di classe, perché su di essa si esercitano in modo maggiore meccanismi di esclusione e ghettizzazione.

Qualificati non-qualificati

Se è sempre esistita una divisione tra lavoratori qualificati e lavoratori non qualificati, oggi una tale distinzione rimane, ma assume una diversa connotazione rispetto alla generalizzazione della precarietà sociale. Procedendo per semplificazioni possiamo vedere come dall’operaio di mestiere si è passati all’operaio massa, dentro la dimensione fordista dell’organizzazione del lavoro, e da questo si è passati al lavoratore precario nell’accumulazione flessibile. Il tratto pauperistico del lavoro, se nella prima e nella seconda figura era marginale, oggi con la terza assume una dimensione di massa e generalizzata. Ovviamente stiamo estremizzando, in quanto nella realtà concreta sono sempre esistiti settori diversi di lavoratori salariati, qualificati e non qualificati. Accanto all’operaio di mestiere esisteva una massa di lavoratori non qualificati, la stessa cosa si può vedere con il sopraggiungere dell’operaio massa, che se rispetto al primo diventava la porzione non qualificata, con lo sviluppo dell’economia di regolamentazione keynesiana perdeva i tratti pauperistici (4). Ai margini rimanevano, anche in questo caso, larghe fasce di lavoratori pauperizzati non appartenenti né alla prima né alla seconda categoria. Nell’accumulazione flessibile il lavoratore anche quando ha qualifiche alte subisce dentro la produzione flessibile meccanismi di pauperizzazione cosi come quello non qualificato. Oggi anche un ricercatore universitario può trovarsi a lavorare in un supermercato in un attimo, cosi come un operaio edile può passare in modo altrettanto rapido a lavorare in un call center. In entrambi i casi il tratto distintivo è la precarietà contrattuale in un contesto di produzione flessibile.
Se la divisione del lavoro capitalista determinata da precisi meccanismi legati all’accumulazione del capitale offre, non solo ai diversi capitali ma anche ai diversi gruppi di lavoratori, la possibilità di affermare interessi specifici in seno ai rapporti di classe esistenti, questo produce una dinamica fondata su contraddizioni di classe, ma rappresenta anche accanto all’interesse di classe, anche particolari interessi professionali. Questa polarizzazione di interessi tra classi e nella classe, trova nell’attuale montare del binomio generalizzazione della precarietà-dimensione metropolitana e processi di crisi in atto inedite forme di polarizzazione sociale.

La generalizzazione della precarietà

La generalizzazione della precarietà viene ampliata dentro gli attuali contesti di crisi attraverso una tendenziale pauperizzazione assoluta, sul piano quantitativo: potere di acquisto sempre più debole e livello di vita sempre più basso, sul piano qualitativo: l’alienazione del lavoratore rispetto alla società. La pauperizzazione assoluta è un aspetto della legge di accumulazione capitalista e della sovrappopolazione relativa (5).
La crisi del capitalismo spinge i capitalisti a sfruttare ancor più il lavoro salariato, perché il loro obiettivo è recuperare le quote di profitto che la crisi brucia. La crisi provoca inesorabilmente una recessione economica, la diminuzione della produzione, la chiusura di fabbriche e aziende, e quindi l’estromissione dalla produzione - dai posti di lavoro - di masse sempre più imponenti di proletari. L’esercito industriale di riserva aumenta progressivamente: più viene accumulato capitale, più aumenta la produttività del lavoro di ogni singolo lavoratore salariato, più cresce la quantità di operai in «esubero», più cresce la precarietà del posto di lavoro e del salario, più cresce la non-occupazione. Si forma così in ogni paese una enorme massa di proletari non impiegati nelle attività economiche capitalistiche, una sovrapopolazione relativa, il famoso esercito industriale di riserva, una massa crescente di lavoratori precari, fluttuanti tra occupazione e non occupazione, la cosiddetta generalizzazione della precarietà. Un ulteriore tratto della generalizzazione è la scomposizione produttiva e sociale che il meccanismo dell’accumulazione flessibile porta con sé. Si mantiene la parcellizzazione della catena di montaggio, mentre si assiste ad una massiccia delocalizzazione della produzione, toccando quindi non solo gli aspetti legati alle mansioni del lavoro, ma anche alla stessa localizzazione della produzione. Non è il modello industriale che sparisce ma si dilata dentro lo spazio-tempo, investendo sempre minor tempo e una capacità spaziale sempre maggiore.

Tuttavia questa parcellizzazione, che investe l’organizzazione del lavoro e i lavoratori stessi, si ricompone dentro la dimensione metropolitana, dentro determinati contesti geografici. La metropoli è lo spazio dove si realizza in pieno la flessibilità e la velocità del ciclo produttivo e distributivo, che ha bisogno di una nuova popolazione di schiavi, che non vengono espulsi, ma inseriti dentro questo contesto come nuovi operai attivi fluttuanti che vede nella figura del precario l’elemento centrale. Per queste figure non si applica una politica di inclusione sociale ed è grazie alla loro condizione che vengono accelerati i profitti dei borghesi e si mantiene una “aristocrazia salariata”. Questo rapporto di sudditanza è parallelo a quello tra nord e sud, ben più evidente della vecchia relazione tra operai occidentali e popoli del terzo mondo. Questi nuovi operai non godono dei frutti dell’imperialismo. Quando questi settori si organizzano, quando si ribellano vengono criminalizzati nel medesimo modo dei popoli che lottano contro l’imperialismo. Il soggetto migrante incarna e sintetizza in modo emblematico i due fronti. Per la prima volta masse di operai multinazionali risiedono sul territorio nazionale, modificando alla radice i tratti comunitari sociali precedenti (6). Stiamo assistendo a un inedito meccanismo di polarizzazione sociale, accelerato dalla crisi, che sul piano dei rapporti oggettivi livella le differenze tra operai indigeni e multinazionali.

Occorre tuttavia saper leggere la stratificazione di classe, dismettendo categorie quali tradimento o corruzione. Accanto a questa massa di lavoratori investiti dalla generalizzazione della precarietà, esiste una porzione di “aristocrazia salariata”, confinata in specifici settori e/o mansioni, derivante da un carattere duplice: da una parte da un aumento della produttività (e quindi dal relativo sfruttamento maggiore della stessa aristocrazia salariata), e da un aumento contemporaneo dei salari e dei profitti. Solo in questo modo si può leggere correttamente l’attuale polarizzazione che sta investendo l’universo della precarietà sociale con quello dell’aristocrazia salariata.

Dentro l’universo della precarietà attraverso la sua generalizzazione c’è la rottura della vecchia dicotomia tra occupati e non occupati, in quanto l’esercito industriale di riserva diventa esso stesso produttore, dentro quella magmatica e veloce linea che racchiude la precarietà, il lavoro grigio, la non occupazione dentro una cornice di sopravvivenza ed esclusione sociale. Avviene quindi nell’accumulazione flessibile una velocizzazione del fenomeno descritto da Marx: “Tutto sommato, i movimenti generali del salario del lavoro sono regolati dall’espansione e dalla costruzione dell’esercito industriale di riserva, che corrispondono ai diversi periodi del ciclo industriale. Dunque non dipendono dal movimento del numero assoluto della popolazione operaia, ma dal rapporto variabile, secondo cui la classe operaia si divide in esercito attivo ed esercito di riserva, dall’aumento e dalla diminuzione relativa della sovrappopolazione, dal grado di assorbimento o di rigetto della medesima”(7).

Assistiamo all’estensione quantitativa e qualitativa di un simile soggetto dentro un modello di produzione capitalista basato sull’accumulazione flessibile. Oggi la distinzione tra disoccupato, precario, lavoratore in nero è ormai flebile. Il problema lavoro esiste anche per coloro che ne posseggono uno, dato che si lavora sempre di più ed in condizioni sempre più precarie e instabili.
Saper cogliere questa dinamica contraddittoria del processo attuale ci permette di cogliere non solo le difficoltà di un simile soggetto di manifestarsi direttamente dentro la lotta di classe, ma anche le sue possibilità di creare nella lotta nuovi rapporti sociali, in un contesto contraddistinto da processi di crisi sistemici la cui portata e profondità si sono solo colti in superficie.



Note
(1) “Quanto maggiori sono la ricchezza sociale, il capitale in funzione, il volume e l’energia del suo aumento, quindi anche la grandezza assoluta del proletariato e la forza produttiva del suo lavoro, tanto maggiore è l’esercito industriale di riserva. La forza-lavoro disponibile è sviluppata dalle stesse cause che sviluppano la forza d’espansione del capitale. La grandezza proporzionale dell’esercito industriale di riserva cresce dunque insieme con le potenze della ricchezza. Ma quanto maggiore sarà questo esercito di riserva in rapporto all’esercito operaio attivo, tanto più in massa si consoliderà la sovrappopolazione la cui miseria è in proporzione inversa del tormento del suo lavoro. Quanto maggiori infine lo strato dei Lazzari della classe operaia e l’esercito industriale di riserva tanto maggiore il pauperismo ufficiale Come tutte le altre leggi, essa è modificata nel corso della propria attuazione da molteplici circostanze.” Karl Marx, Il capitale, libro 1, capitolo 23,
2) E' il processo di formazione di valore. Più precisamente è il fenomeno che avviene nella società capitalistica quando al valore di una merce viene aggiunto plusvalore. Marx nell'analizzare il processo di produzione distingue tra il processo lavorativo e quello di valorizzazione. Il modo di produzione capitalistico è contraddistinto dal fatto che in esso il processo lavorativo, che è «condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana», assume la particolare caratteristica di essere «processo di creazione del valore». In altri termini il lavoro acquista una forma tipica in cui non è più semplicemente un'attività diretta alla soddisfazione di determinate necessità, ma diventa lavoro che produce merce. Nella società capitalistica, infatti, i lavoratori non producono per se stessi, o meglio per soddisfare le proprie necessità fondamentali, e neppure dirigono e organizzano direttamente i tempi e le modalità della produzione. Ciò che invece regola e in ultima analisi determina la produzione è il capitale o se si vuole la classe capitalistica nel suo insieme. Il processo di valorizzazione riguarda precisamente il capitale, che infatti viene valorizzato, si «autovalorizza», cioè aumenta di valore al termine di un ciclo produttivo: “L'autovalorizzazione del capitale - la creazione di plusvalore - è quindi lo scopo animatore, dominante e ossessivo del capitalista, il pungolo e il contenuto assoluto del suo operare; ... un contenuto totalmente astratto e meschino che, da un lato, fa apparire il capitalista come sottomesso alla schiavitù del rapporto capitalistico, non meno che, dall'altro, al polo opposto, l'operaio” Karl Marx, Il Capitale, cap. VI inedito.
3) Henryk Grossmann, Il crollo del capitalismo, Jaka Book

4) Non è il tema di questo scritto, ma ci ripromettiamo di intervenire più nello specifico rispetto ai meccanismi della crisi e delle teorie della crisi, che oggi devono essere necessariamente all’ordine del giorno di chiunque si interroghi sul presente e voglia trasformarlo. Ci concediamo questa piccola digressione che abbozza il nostro punto di vista rispetto a tutta una serie di letteratura neo-keynesiana che oggi imperversa, rispetto alla dicotomia tra capitale finanziario e produttivo. La rottura del compromesso keynesiano attraverso meccanismi neo-liberisti non ha interrotto il processo di crisi, l’estensione dell’integrazione finanziaria nella produzione ha ingrossato lo tsunami della crisi. Ma già il keyniesismo, non aveva risolto i problemi di squilibrio e dei relativi cicli di crisi, li aveva dilatati unicamente nel tempo. La crisi è stata differita attraverso la creazione di debito in tutte queste forme: privato, pubblico e statale. Ai tempi della seconda guerra mondiale era diffusa l'idea keynesiana che si potesse prendere a prestito soldi e poi fermarsi. Ma dopo la guerra il mondo politico-economico fu cosi spaventato dagli effetti di una nuova eventuale crisi che cominciò a tenere costantemente piuttosto basso il livello della spesa pubblica. Quando nel 1975 finì l'Età dell'Oro fu preso dal panico. Vi fu una enorme inondazione di credito e l'invenzione di nuovi strumenti di credito. Riuscì in un modo o nell'altro a rinviare la crisi per 40 anni. Ma esiste un limite. Infine si arriva al 2008, il meccanismo non era più in grado andare avanti. La struttura del debito era stata costruita su una base di cambiali, ma il debito divenne così grande da non poter più essere sostenuto in rapporto all'effettiva produzione di valore. E’ per questo che oggi la crisi produce una depressione profonda. Alcuni possono paragonarla alla depressione degli anni 30, ma i governi oggi non hanno il denaro di cui disponevano nel 1930. Questa è una situazione assolutamente unica: una profonda depressione, ma per la quale la strumentazione keynesiana non è più utilizzabile, perché il denaro è già stato speso. Gli Stati Uniti hanno 14 triliardi di dollari di debito nazionale. Per cui ora non sanno proprio cosa fare. Già Henryk Grossman, nel testo Il crollo del capitalismo mise in rilievo che, non essendo lo Stato un attore economico – non essendo proprietario di risorse economiche – il coinvolgimento dello Stato nell’economia può realizzarsi solo a spese dell’economia privata. Non può essere produttore di profitto e quindi non può risolvere il problema capitalistico del profitto. Chi crede quindi di poter uscire dalla crisi con politiche neo-keynesiane non si accorge che lo stesso keynesismo si è mostrato incapace di prevenire un ritorno del ciclo economico e anche che questa depressione avrebbe assunto la nuova forma di una combinazione di inflazione e stagnazione.
5) Esercito industriale di riserva, in altri termini, una sovrappopolazione relativa, in relazione cioè ai bisogni momentanei del capitale.
6) “L’incidenza della componente sociale migrante nel nostro paese è notevolmente aumentata in questi ultimi 10 anni, con 4,5 milioni di immigrati pari al 7% della popolazione nel 2007 contro il 3,9% del 2000 (dati OCSE). L’Italia oltre ad essere un paese di immigranti(alta è ancora l’incidenza di immigranti verso la Germania) è diventato anche approdo di diverse comunità di migranti. L’incidenza sul tessuto sociale urbano e lavorativo è netto su tutto il territorio italiano. La collocazione dei migranti nell’organizzazione del lavoro è prevalentemente legata ai “lavori manuali” e con un altissima incidenza della “precarietà contrattuale”. Oggi inoltre iniziamo ad avere una seconda generazione, ossia figli di migranti nati in Italia. In molte città italiane l’indice di natalità è salito grazie alla presenza delle diverse comunità di migranti. Non è raro vedere in numerose scuole elementari e medie, nelle periferie della città, classi ormai miste.” Da: Il nuovo protagonismo dei migranti in Italia, Contropiano, 2009
7) Karl Marx, Il Capitale, I libro, capitolo 23

* Pubblichiamo questo primo nostro materiale, che riprende in parte un articolo scritto da noi precedentemente su una rivista denominata Generazione Precaria, la cui vita è stata cosi precaria che è stata fatta chiudere dal primo numero. A questo materiale seguirà un altro nostro lavoro specifico sul rapporto autonomia e organizzazione

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