La crisi
le dinamiche e le passioni
che agitano
il presente… e il futuro…….
“In Italia, dove la produzione capitalistica
si sviluppa prima che altrove, anche il dissolvimento dei rapporti di servitù
della gleba ha luogo prima che altrove. Quivi il servo della gleba viene
emancipato prima di essersi assicurato un diritto di usucapione sulla terra.
Quindi la sua emancipazione lo trasforma subito in proletario eslege, che per
di più trova pronti i nuovi padroni nelle città, tramandate nella maggior parte
fin dall’età romana. Quando la rivoluzione del mercato mondiale dopo la fine
del secolo XV distrusse la supremazia commerciale dell’Italia settentrionale,
sorse un movimento in direzione opposta. Gli operai delle città furono spinti
in massa nelle campagne e vi dettero un impulso mai veduto alla piccola
coltura, condotta sul tipo dell’orticoltura” Karl Marx, Il Capitale
Partiamo
con questa pedante citazione, perché riteniamo importante analizzare la crisi,
rompendo fin da subito un tabù, che spesso aleggia nella sinistra rispetto ad
un presunto ritardo nel modello di produzione capitalistico in Italia. Questo
ha fatto si che ancora oggi in Italia si analizzi la crisi
considerando determinate organizzazioni sociali come retaggio del passato e non
come elementi strutturali e integrati nell’economia politica presente. Pensiamo
ad esempio alla valutazione dell’economia criminale (mafia, camorra,
‘ndrangheta), considerata elemento parassitario rispetto ad una economia
produttiva sana, valutazione che non coglie il livello di integrazione tra
questi elementi.
Ci
interessa partire da questo punto perché c’è il tentativo di introdurre una
simile apparente contraddizione tra finanza e produzione da parte dei paladini
dell’economia politica di sinistra
Nel
dopo guerra il sistema industriale italiano trovò la sua linea di sviluppo
nella produzione di beni di consumo durevole, in particolare automobili ed
elettrodomestici a basso costo e beni di investimento per industria ed
edilizia.
L'industria
è stata largamente sostenuta da investimenti pubblici. Dopo gli anni 50 si
è assistito ad un boom delle
esportazioni accelerato dalla costituzione dell’unione doganale con gli altri
Paesi europei, il MCE (Mercato Comune Europeo),
e dall’espandersi della domanda
interna di quegli stessi beni.
Il processo di crisi, a partire dalla metà degli anni '70, portò
all’interruzione di quel meccanismo di crescita avviato nel dopo guerra
caratterizzato, nelle principali economie mondiali, dal meccanismo
dell’economia mista. Dagli anni '30 il meccanismo dell’economia mista aveva
assunto un ruolo principale per lo sviluppo delle condizioni per la
prosecuzione dell'accumulazione, intervenendo nel ciclo di accumulazione del
capitale in diverse forme, dal modello americano a quello russo, dallo stalinismo
alla destra fascista fino alle democrazie post belliche.
In Italia, con la crisi degli anni 70 si mette in moto un gigantesco
meccanismo che rende obsoleto il sistema su cui si era retto fino a quel
momento lo sviluppo economico e la
crescita. Questo sistema, basato su enti pubblici autonomi (IRI), ha aperto
inevitabilmente un ciclo di inflazione galoppante e un aumento del debito
pubblico.
Le ristrutturazioni della grande industria che ne conseguirono, indicano
la fine di un modello di sviluppo, che si è inevitabilmente infranto contro i
limiti del capitalismo sovvenzionato dalle politiche keynesiane.
In questa ristrutturazione è possibile vedere anche una certa reattività
del capitale nei confronti della lotta operaia che si era sviluppata in quegli
anni, tuttavia, riteniamo che da solo questo aspetto non spieghi adeguatamente
il passaggio dal ciclo espansivo del capitale agli avvenimenti successivi. La
capacità di modificare il cosiddetto “piano” del capitale, per utilizzare una
locuzione a noi non troppo cara ma tanto in voga in quegli anni in Italia, va
inserita nelle condizioni generali in cui si è manifestata la crisi, che ha
colpito un modello di sviluppo del capitale e con esso il conflitto di classe
collegato a quella fase.
In altri termini, non riteniamo che la crisi di accumulazione che ha
colpito il capitale a partire dagli anni settanta sia del tutto riconducibile
allo sviluppo della conflittualità di classe espressa nel periodo precedente,
la ristrutturazione conseguente non era una semplice reazione del capitale al
conflitto di classe.
Senza sminuire l'importanza di quel ciclo di lotte, bisognerebbe leggere
le agitazioni come manifestazione dell' esperienza diretta di migliaia di
proletari in lotta evitando di avvolgerle nel mito ideologico.
In questo senso troviamo delle affinità con il giudizio postumo di Marx
sulla Comune di Parigi: “La ribellione di una sola città in condizioni
specialissime, con una popolazione che non era – né poteva essere- socialista.
Con un tantino di buon senso in più, sarebbe forse stato possibile raggiungere
un compromesso con Versailles favorevole ai comunardi. Ma non si poteva fare
nulla di più” Lettera di Marx a F.D. Nieuwenhuis, 1881.
La controtendenza che si verificherà subito dopo è stata caratterizzata
dallo sviluppo e la profittabilità delle piccole e medie imprese che diventano
la spina dorsale dell’intera economia italiana. Siamo nel cosiddetto periodo
“del piccolo è bello”. Di fronte alla progressiva diminuzione delle grandi
centrali industriali, la cui manodopera viene riassorbita in parte dalle
imprese pubbliche (aumentando il debito pubblico), c’è chi apparentemente fa a
meno dell’intervento pubblico e si presenta come virtuoso e innovativo. Per una
ventina d’anni il cosiddetto piccolo è bello copre la scena italiana. Tuttavia
fin dal suo momento costitutivo un simile modello rappresenta una capacità
adattiva piuttosto che propulsiva per l’accumulazione, rendendo inevitabilmente
marginale il ruolo del capitalismo Italiano rispetto a quello di Stati Uniti,
Giappone e altri Stati europei.
Chi
vide con la fine della grande industria in Italia una modificazione del
sindacato, prima caratterizzato dall'opposizione e poi dalla gestione, non
riuscì a cogliere la reale dinamica sindacale. E’ normale che con la fine dei
grandi concentramenti industriali classici, la morfologia del sindacato cambi,
modificando la composizione, con un aumento quantitativo imponente di
pensionati e personale del pubblico impiego, sia aumentando i servizi (caf,
patronati ecc…), senza mutare la sua funzione. L’idea che possa esistere un
sindacato antagonista, una organizzazione che esiste al di là dei processi
storici che determinano i rapporti di forza tra le classi, è idealistica. Lo
sviluppo e la diffusione dei consigli di fabbrica alla fine degli anni '60 in Italia dimostrò
precisamente, come tante altre volte è avvenuto nella storia, che ogni volta
che le lotte dei salariati oltrepassano un certo grado di ampiezza e di
intensità, devono tendere a costruire forme adeguate alla natura della classe e
al grado di socializzazione del processo produttivo. La decadenza di queste
nuove forme dipende dal declino delle lotte stesse. Lo stesso declino dei
Soviet russi, funzionanti fino ai primi 6-12 mesi dalla rivoluzione, fu causato
essenzialmente dal venir meno della partecipazione delle masse, ossia dalla
fine del processo di generalizzazione di nuovi rapporti sociali. Tali
rapporti sociali possono svilupparsi
anche quando non modificano i rapporti di produzione, anche se il loro potere
di rottura è sicuramente molto più limitato.
Qualsiasi
sindacato deve sottostarsi alle leggi di mercato e alle fluttuazioni
dell’accumulazione di capitale (l’unica vera autentica genuina variabile
indipendente), pena l’essere posto fuori gioco dai lavoratori stessi. Va letta
in questo senso la differenza che esiste tra una lotta economico-politica e una
lotta che rompe con l’economia-politica, la cui
differenza non si manifesta nelle forme, ma nell’essere cioè nella
dinamica della lotta di classe stessa, nella capacità di generalizzare nuovi
rapporti sociali. In questo senso la scala di valutazione del successo di una
lotta viene ad essere rovesciata, in quanto il proletariato è elemento del
capitale solo quando rompe il suo legame con esso e sviluppa nuovi rapporti
sociali. La mitologia dello stato sociale, della distribuzione equa, ecc… in
realtà non ha nulla a che fare con la critica dell’economia stessa, ma è
piuttosto il volano per nuovi cicli di accumulazione. Questo non vuol
significare che le lotte sono inutili, ma occorre capire i meccanismi di
rottura o integrazione che esse creano nei confronti del capitale.
L'
impianto “piccolo è bello” vide nel
meccanismo svalutativo della Lira un volano di questa apparente rinascita, che
permise una maggiore ridistribuzione di profitti, ma non annullò i meccanismi
di crisi di accumulazione. Una buona fetta di forza lavoro impiegata in questo
settore fu una massa di precari autoctoni e immigrati.
La
compressione dei salari messa in atto in quegli anni portò certamente un
aumento, non eclatante, del saggio di profitto senza che si riavviasse
l’accumulazione. L’aumento vertiginoso del debito negli anni '70/'80 si poteva
interpretare come uno spostamento di denaro a favore dei grandi gruppi
finanziari in prima battuta, e poi a favore di ceti intermedi possessori di
capitali, invece diede vita ad una sempre più aspra lotta fra gruppi sociali
desiderosi di mantenere almeno le quote già ottenute. L’esplosione della
adesioni alla Lega Nord nei primi anni novanta è dovuta a questo meccanismo,
favorita anche da una difficile
condizione dei lavoratori, per cui una parte beneficiava sul piano
reddituale di una relativa redistribuzione, ma che in realtà vedeva aumentare
la divisione e la concorrenza tra i lavoratori stessi nel suo insieme.
Tuttavia
le difficoltà sistemiche rimasero e vennero unicamente posticipate. Oggi, non
tanto paradossalmente, la forza del “piccolo è bello” viene ad essere descritta
dagli stessi apologeti del passato come il limite stesso del sistema, che non
colesro né prima né ora il meccanismo del processo di crisi in atto.
Sul
piano politico questo “mondo” vedeva in Berlusconi il suo alfiere, e come
sempre la sinistra scambiava un fenomeno di debolezza come un mastodontico
mostro invincibile. La sinistra si è contrapposta a Berlusconi, riproponendo
l'ideologia antifascista e
democraticista, tanto da farci parafrasare una vecchia frase di Bordiga: “Il
peggior prodotto del berlusconismo è stato l’antiberlusconismo”. L’apparente
potenza di Berlusconi, il controllo delle TV, la sua “onnipotenza”, sta
lentamente svanendo come neve al sole, di fronte alle scariche telluriche della
crisi in atto e oggi viene ricordato come un vecchio satrapo. La sinistra
continua tuttavia a descriverlo come il responsabile della crisi in corso, non
paga degli errori del passato. Troppo onore per l’ultimo baluardo di b-movie
erotici all’italiana…
La
crisi, esplosa nell’estate del 2008 rende evidenti le contraddizioni
accumulatesi sin dagli anni ’70, e caratterizza tutti i campi del modo di produzione
capitalistico. La portata dell’attuale crisi, la più violenta e generalizzata
dopo quella del 1929, dipende proprio dall’estensione e dalla profondità di
quelle contraddizioni. Le attuali deflagrazioni non sono che l’onda
lunga di quella crisi internazionale del sistema capitalistico cominciata nel
1974-75. La stessa portata planetaria affonda le proprie radici in quei
tempi ormai remoti. E’ infatti la stessa crisi legata alla riduzione del saggio
di accumulazione, l’unica responsabile del collasso economico in corso. Essa
negli anni ha accelerato incredibilmente i tentativi speculativi. Ma quali sono
gli indici della crisi? Caduta della produzione industriale, degli investimenti in capitale fisso, del tasso di profitto,
aumento dell’esercito industriale di riserva, speculazione finanziaria, crisi
debitoria degli Stati e “corsa all’oro”. Tutti indizi di una nuova recessione
globale che coinvolge anche i paesi emergenti e che diffonde un senso di panico
generalizzato.
Se
la crisi trova la sua manifestazione nella forma finanziaria, forma prevalente
del capitalismo contemporaneo, la sua sostanza e le sue radici risiedono
all’interno dei meccanismi di produzione, e più specificamente nella crisi di
profittabilità che si esprime nella caduta tendenziale del saggio medio di
profitto. Marx considera così la caduta tendenziale del saggio di profitto:
"Questa è, sotto ogni rispetto, la legge più importante della moderna
economia politica, e la più essenziale per comprendere i rapporti più difficili.
Dal punto di vista storico è la legge più importante. E’ una legge che, ad onta
della sua semplicità, non è stata finora mai compresa e tanto meno espressa
consapevolmente" K.Marx, Lineamenti fondamentali della critica
dell’economia politica.
Siamo
in presenza di una profonda differenza tra le vecchie crisi di
sovrapproduzione, incontrollabili, ma da cui il capitalismo ancora giovane si
liberava spingendosi più in là in nuove crisi, di livello economico sempre più
alto dalla crisi attuale, che viene producendosi in un organismo vecchio,
corroso da molti decenni di parassitismo finanziario (esasperato negli ultimi
vent'anni). Gli scenari per il futuro non indicano affatto una ripresa, stiamo
assistendo piuttosto allo stabilizzarsi di un continuo deterioramento
dell'economia mondiale che ha ripreso il trend che ha condotto al collasso
della finanza e della produzione del 2007-2009, con ulteriori aggravanti: la
crescita dei prezzi delle materie prime, in primo luogo il petrolio, un
rallentamento della locomotiva asiatica e le difficoltà di molti Stati europei
nel sostenere i livelli di indebitamento pubblico.
La
bilancia corrente cinese ha avuto un avanzo del 2,8% del PIL nel 2011, contro
un 10,1% del 2007, questo calo è stato dovuto principalmente alla contrazione
della domanda europea e statunitense ( il 40% dell'export cinese).
La
condizione dell'Unione Europea in questo scenario mondiale è aggravata
dall'ulteriore instabilità finanziaria legata al debito pubblico di alcuni
paesi dell'Unione e dalla anomalia valutaria costruita con l'Euro, che esprime
un debito pubblico non finanziabile direttamente da una Banca Centrale
prestatrice di ultima istanza, alla BCE,
infatti, è fatto divieto di acquistare titoli pubblici emessi dagli Stati
membri.
Tuttavia
le condizioni di debolezza e instabilità Europea non sono causate da ragioni
valutarie o di debito pubblico. Quest'ultimo anzi è, in rapporto al PIL,
inferiore rispetto ai valori Giapponesi o Statunitensi. Le difficoltà degli
Stati a rifinanziare con emissioni di titoli pubblici i deficit di bilancio
sono la diretta conseguenza del perseverare della crisi. Gli Stati Europei,
addossandosi il debito delle banche private hanno riportato la volatilità dei
titoli azionari e l'instabilità del settore finanziario direttamente nel
settore dei titoli pubblici. La competizione ha spinto in alto i differenziali
dei tassi di interesse fra gli stati membri dell'Europa, peggiorando
ulteriormente le condizioni di rifinanziamento del debito pubblico di paesi
come Italia e Grecia. Per nazioni come
l'Irlanda (appartenente al gruppo dei PIIGS) le condizioni del debito pubblico
si sono deteriorate a seguito della “statalizzazione” del debito privato, in
gran parte causato da disavanzi commerciali con l'estero che, in assenza di
adeguamenti valutari, si tramutano in una continua crescita del debito estero. Il capitale, assetato di profitti che non
riesce più a ottenere nel settore produttivo per via dell’accumulazione troppo
elevata, trova nella particolare situazione europea (priva come dicevamo di un
prestatore di ultima istanza) un’ulteriore occasione per speculare tramite, ad
esempio, strumenti finanziari come i credit default swap.
Ma l'anomalia valutaria dell'Euro, sia dal punto di vista del
finanziamento del debito pubblico sia per come ha agito nel determinare
l'indebitamento estero di alcuni paesi come l'Irlanda, costituisce un modo di
agire della crisi mondiale per i paesi dell'Unione Europea, non costituendone
né la causa né tanto meno una leva su cui agire per favorire la ripresa.
È
la crescita che determinerà la sostenibilità finanziaria dei paesi dell’euro,
in quanto essa influenza la capacità di ridurre il debito sia in termini
assoluti (tramite l’aumento del gettito fiscale) che relativo (aumentando il
denominatore del rapporto Debito/PIL.
Il
ricorso al credito diventa per il settore non finanziario l'unico strumento per
sostenere la crescita. Ma il ricorso al credito è frenato sia dalla necessità
del settore bancario di risanare i bilanci, sia dalla tendenza al cosiddetto
delevereging del settore non finanziario, cioè dalla sostituzione del capitale
di credito con reinvestimento di utili o emissioni azionarie. Nonostante le
imprese europee abbiano mostrato una capacità di consolidamento
dell'esposizione debitoria, il livello di indebitamento resta storicamente a
livelli piuttosto elevati. Questo rende la stabilità economica e finanziaria
del settore non finanziario europeo soggetta a rischi legati all'andamento sia
dei tassi di interesse che a cali di domanda e dei profitti.
Il
dilemma per i manovratori istituzionali si fa ancora più profondo. Un aumento
“eccessivo” del credito potrebbe portare a spinte inflattive e al
deterioramento della condizione patrimoniale delle banche, un consolidamento
patrimoniale delle banche conseguente ad una riduzione del credito ai privati
potrebbe rallentare ulteriormente la crescita economica peggiorando i deficit
pubblici. In questo caso l'inevitabile ripercussione sui titoli pubblici,
posseduti dalle banche, porterebbe ad un conseguente peggioramento dell'attivo
del settore bancario che subirebbe la svalutazione legata ai titoli di Stato
posseduti.
Il
ciclo virtuoso della crescita dell'accumulazione spinta dal capitale di credito
si è tramutata in ciclo viziato di un'economia sull’orlo del collasso.
Parlare
di ripresa con queste premesse è solo il tentativo scaramantico degli analisti
borghesi di esorcizzare il terrore di un repentino ripresentarsi di una crisi
finanziaria che colpisca la fiducia nelle banche e negli Stati con conseguenti
instabilità economica e politica deflagranti. Intanto si spera che la ripresa
“sapientemente” guidata da governi, banchieri e capitani di industria, vecchi e
nuovi, porti ad un nuovo ciclo di crescita.
Resta
il fatto che lo stesso Fondo Monetario Internazionale deve riconoscere che “la
ripresa attuale per le economie avanzate è la più debole dal dopoguerra”.
Secondo
i dati esposti nel World Economic Outlook da parte del FMI, la ripresa dalla
crisi attuale rispetto alle precedenti (dall'85 ad oggi) è stata notevolmente
squilibrata. La crescita della produzione si verifica solo in alcuni Paesi emergenti, mentre resta
al di sotto del periodo pre-crisi per i Paesi a capitalismo avanzato. La
disoccupazione durante la ripresa non è diminuita, gli investimenti continuano
a subire una contrazione, gli unici mercati che sembrano mostrare vitalità sono
i mercati azionari che hanno mostrato una crescita del prezzo delle azioni. Più
che ripresa economica sembra l'incessante operare del capitale speculativo alla
ricerca di profitti slegati dal ciclo reale di accumulazione.
Gli
Stati Europei presentano una condizione ancora più severa rispetto ai partners
a capitalismo avanzato. Nel 2009 la produzione europea (EU 25 Stati) aveva
subito una contrazione del 4,3 %, la crescita su base annua è stata 2 % e 1,5 %
rispettivamente nel 2010 e 2011, è prevista attestarsi allo 0,6 % per il 2012.
Cioè non si sono ancora recuperati i livelli pre-crisi. L'occupazione nel
settore costruzioni dal 2008 al 2011 è caduta di circa il 17%, Il settore
manifatturiero ha continuato un declino dell'occupazione dal 1996 riducendosi
di quasi il 12 % dal 2008 al 2010. Il settore dei servizi ha un livello di
crescita dell'occupazione di 2,8%, inferiore al periodo di pre-crisi. La
disoccupazione era del 9,5 ad inizio 2011 ed cresciuta al 10,2 a febbraio 2012 (EU
27).
Questi
dati naturalmente riflettono un valore medio che di fatto non esiste
aggiungendo ai livelli allarmanti dei dati l'ulteriore costatazione
dell'incalzare degli squilibri fra le diverse aree geografiche e della
polarizzazione sociale che riflette l'andamento medio degli indicatori
statistici.
L’enorme
massa di capitali posti all’interno della finanza è l’emblema di un ciclo
discendente e non ascendente dell’attuale fase del sistema capitalistico. Pur
di sostenere tassi di accumulazione, che la produzione capitalistica non
garantisce più da decenni, la forma apparente della valorizzazione del capitale
si è riversata nella sfera della circolazione, in cui da denaro si crea
apparentemente altro denaro valorizzato. La vita del capitalismo dipende dunque
dalla possibilità di iniettare sempre nuovi capitali in ogni attività
possibile, in modo da aumentare la produttività; ma è proprio
quest'ultima ad accentuare la tendenza alla diminuzione della massa di
plusvalore generato e realizzato, in un circolo vizioso.
L’abbassamento
del saggio medio di profitto non ha impedito che, attraverso l’utilizzo
intensivo del capitale morto (concentrazione e centralizzazione dei capitali),
si aumentasse la massa dei profitti, producendo così una situazione in cui una
massa di capitali, di varia formazione, vaga per il mercato mondiale alla
ricerca di opportunità di profitto di qualsiasi natura. A mano a mano che la
redditività cala nei settori produttivi, il capitale produttivo emigra nella
sfera finanziaria dove diventa capitale fittizio, capitale investito in titoli di
debito/credito (per esempio azioni, bond statali, obbligazioni di imprese
private, ecc) o in derivati, e il maggiore flusso di capitale causa un
innalzamento dei prezzi di questi titoli.
La
divaricazione tra la linea del tasso di profitto e quella del tasso di
accumulazione nel grafico, evidenzia l’area di finanziarizzazione
dell’economia. Come sempre, più capitale, anticipando ulteriori innalzamenti di
prezzi, è risucchiato dai settori improduttivi, più i prezzi di quei titoli
scambiati sui mercati finanziari aumentano, e il processo diventa
auto-espansivo.
espansione
del settore finanziario dopo il 1980
da Controverses, settembre 2009 (in www.leftcommunism.org)
I
profitti fittizi aumentano formando la bolla speculativa. L’incremento dell’uso
di strumenti finanziari, che nulla hanno a che fare con la produzione reale, e
quindi, con la produzione e l’accumulazione di plusvalore, non rappresenta
un’errata deriva del sistema capitalistico dovuta alla scelta di un manipolo di
sconsiderati, ma la conseguenza più logica della crisi. La prevalenza della
forma finanziario-speculativa del capitalismo non è un accidente della storia,
ma il risultato dell’impossibilità di una crescita economica reale
generalizzata trainata dai profitti.
La
possibilità di una rottura effettiva con il capitalismo, e il disvelarsi di una
nuova comunità, sta dentro un rapporto di lotta di classe in un contesto
oggettivo di limite del capitalismo. Se si elude questo rapporto non si può
rompere il meccanismo dell’economia politica e della politica stessa. “Il modo
di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo
sociale, politico e spirituale della vita. Non è la conoscenza degli uomini che
determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che
determina la loro coscienza. […] L’umanità si pone sempre solo i problemi che
può risolvere, perché, viste le cose da vicino, si trova sempre che il problema
stesso sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione sono in
atto o almeno sono in formazione”, K.Marx, Per la critica dell’economia
politica.
Già
nel primo libro del Capitale, Marx, parlando della legge del crollo, la
presenta come “la legge generale dell’accumulazione capitalista”. Come ogni
altra legge, anche questa, nella realtà concreta risulta più o meno modificata.
Queste modificazioni vengono esposte dettagliatamente nel terzo libro del Capitale,
specialmente nella sezione che si occupa della legge della caduta del saggio di
profitto. Proprio come la legge di gravità agisce nella realtà concreta
soltanto in forma modificata, è così
anche per la legge del crollo del capitalismo, che non è niente di più
dell’accumulazione capitalista sulla base del valore.
La
legge del valore svela ciò che la realtà concreta, il mondo fenomenico,
occulta: il fatto che il sistema capitalistico debba necessariamente crollare,
con la stessa necessità di una legge naturale. Se abbiamo la capacità di
astrarre tutte le contraddizioni secondarie di questo sistema, possiamo vedere
l’esercizio della legge del valore come legge interna del capitalismo. La legge
del valore spiega la caduta del saggio di profitto, un indizio della caduta
relativa della massa di profitto. L’accrescersi della massa di profitto può
compensare la caduta del saggio di profitto per un certo tempo, ma se in un
primo momento la massa di profitto diminuiva soltanto in relazione al capitale
complessivo ed alle esigenze di un’ulteriore accumulazione, in uno stadio
successivo diminuisce in modo assoluto.
Così espressa la legge della caduta del
saggio di profitto diventa l'espressione teorica della necessità del
superamento del capitalismo, necessità che non è da intendere come un automatismo, ma che comprende necessariamente l'azione
rivoluzionaria. La contraddizione fra valore d'uso e valore di scambio della
merce, si esprime come incapacità per il capitale di espandersi e questo suo
limite diventa necessariamente un limite per l'intera società. In questo senso per Marx “La causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la
povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto con la tendenza
della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive ad un grado che
pone come unico suo limite la capacità di consumo assoluto della società” Il
Capitale III libro. Sovrapproduzione o sottoconsumo (in fin dei conti sono
la stessa cosa) sono necessariamente connessi con la forma fisica della
produzione e del consumo, tuttavia, nella società capitalista il carattere
materiale della produzione e del consumo non assolve al ruolo di poter spiegare
la prosperità o la crisi. Per quanto possa apparire illogico, il capitale
accumula allo scopo di accumulare. Nel capitalismo la produzione materiale, e
così pure il consumo, restano affidati agli individui, il carattere sociale del
loro lavoro e del loro consumo non viene regolato direttamente dalla società,
bensì indirettamente dal mercato. Il capitale non produce cose, ma valori di scambio,
pur non essendo in grado però, sulla base della costituzione del valore, di
adattare la sua produzione e il suo consumo ai bisogni reali, se vuole che la
popolazione non vada in rovina. Se il mercato non riesce più a soddisfare
questi bisogni, allora la produzione per il mercato, la produzione di valore,
viene soppressa dalla rivoluzione per far posto ad una forma di produzione la
cui regolamentazione sociale non avvenga in maniera mediata sul mercato, ma
abbia un carattere direttamente sociale, così da poter essere guidata secondo i
bisogni degli uomini. Questo passaggio rimane all’interno del binomio nuova
umanità o vecchia civiltà direttamente dipendente dalla contraddizione fra le
classi: “Tutti i progressi delle civiltà, ossia del capitale, o in altri
termini ogni accrescimento delle forze produttive sociali o, se si vuole, delle
forze produttive del lavoro stesso –quali risultano dalla scienza, delle
invenzioni, dalla divisione e combinazione, dal miglioramento dei mezzi di
comunicazione, dalla creazione del mercato mondiale, dalle macchine, ecc..- non
arricchiscono l’operaio, ma il capitale; non fanno dunque che ingigantire a
loro volta la potenza che domina il lavoro; accrescono soltanto la forza
produttiva del capitale”, K.Marx, Linemaneti
fondamentali della critica dell’economia politica.
Dal
punto di vista del valore d’uso, la contraddizione tra produzione e consumo
nella società capitalista è una vera follia, ma per la produzione capitalista
ciò non ha alcun importanza. Nell’ottica del valore, invece, questa
contraddizione è la dinamica del progresso capitalistico. Ma proprio per questo
motivo l’accumulazione di tale contraddizione deve, in definitiva, arrivare ad
un punto tale da condurre alla sua soppressione, dal momento che i rapporti
reali di vita e di produzione risulteranno più forti dei rapporti sociali
oggettivati. La base ultima di tutte le crisi reali insomma rimane quindi pur
sempre la limitazione del consumo delle masse rispetto all’impulso a sviluppare
talmente le forze produttive da rendere illimitata la capacità di consumo.
Le
contraddizioni del capitalismo nascono dalla contraddizione tra valore d’uso e
valore di scambio, contraddizione che trasforma l’accumulazione del capitale in
accumulazione del depauperamento. Se il capitale si sviluppa dal lato del
valore, distrugge, nello stesso tempo e in pari misura, la sua propria base,
riducendo costantemente la parte dei produttori che beneficiano dei propri
prodotti. Non è possibile eliminare in modo assoluto dalla faccia della terra
la parte esclusa, sia perché l’istinto naturale di autoconservazione
dell’umanità è più forte di una relazione sociale, sia perché il capitale può essere tale solo
finché può sfruttare i lavoratori, ed è difficile poter sfruttare lavoratori
morti….
Non è
tuttavia il sottoconsumo, non importa se relativo o assoluto, a provocare
l’aumento dell’esercito industriale di riserva e in specifico la massa dei
disoccupati. I fattori che provocano la crisi e la de-integrazione della calsse
sono piuttosoto il sottoconsumo insufficiente o la massa di profitto
insufficiente, l’impossibilità di intensificare lo sfruttamento nella misura
necessaria e la perdita di prospettive per un’ulteriore accumulazione
redditizia.
Il
plusvalore prodotto è insufficiente a corrispondere ai bisogni di un'ulteriore
accumulazione sulla base della produzione di profitto, e che non viene
reinvestito. Poichè è stato prodotto troppo poco capitale, non può più lavorare
come capitale, per cui noi parliamo di sovra accumulazione di capitale. Finché
era possibile ingrandire nel modo adeguato la massa del plusvalore affinché
bastasse per un’ulteriore accumulazione, non si faceva altro che passare da una
crisi all’altra, interrotte da periodi di prosperità. Finché era possibile nei
momenti pericolosi della crisi incrementare l’appropriazione del plusvalore
mediante l’inasprimento dello sfruttamento e il processo di espansione, si
poteva superare la crisi, ma solo per ritrovarsela riproposta poi ad un grado
più alto di sviluppo. Nel punto in cui le tendenze che contrastano il crollo
vengono eliminate oppure hanno perso la loro efficacia nei confronti dei
bisogni dell’accumulazione, risulta convalidata la legge del crollo. In questo
senso l’astrazione di Marx del capitalismo “puro” e la legge del valore si
rivelano leggi interne alla realtà concreta capitalistica, leggi che ne
determinano in ultima istanza lo sviluppo necessario.
E’
per questo che riteniamo che il contrasto di classe inerente ai rapporti di
produzione determina il tipo di lotta di classe e non viceversa. Se da una
parte le organizzazioni formali possono accelerare lo sviluppo generale per
abbreviare le doglie del parto della società nuova, viceversa possono anche
rallentarne lo sviluppo e costruire un ostacolo sulla sua strada. Non riteniamo che la differenza fra le varie organizzazioni
possa essere ricondotta ai principi espressi, incluso il principio stesso di
volere rappresentare la vera organizzazione classista, contrapposta alle false.
Spesso si assiste anche ad una radicalità degli enunciati e di azioni
circoscritte che dovrebbero conferire lo statuto di vera organizzazione
rivoluzionaria. L'assunto sottostante è sempre lo stesso, una separazione fra
pratica rivoluzionaria e movimento di classe, assunto che arriva a definire
indispensabile il ruolo delle organizzazioni quando queste si ritengono le
depositarie della coscienza di classe.
L’affermazione
secondo cui senza coscienza di classe cristallizzata in ideologia sarebbe
impossibile una rivoluzione (la litania che spesso si sente: ci sono le
condizioni oggettive ma mancano quelle soggettive, il partito, la coscienza,
ecc…) circoscrive l'azione rivoluzionaria al contesto
concepito dall'organizzazione, che a prescindere da un effettivo svolgersi di
un processo rivoluzionario, ha già definito in cosa questo consista. Lo storicismo di queste
elaborazioni finisce proprio dove dovrebbe cominciare nel definire il processo
rivoluzionario. In
un periodo rivoluzionario, necessariamente, coscienza e essere appaiono nella
loro unità indistinta all'interno della classe, e dell'intera società, di cui
quelle organizzazioni rappresentano ambiti più o meno estesi. L'estendersi
delle contraddizioni del capitale e il loro superamento non sono unicamente
legati alle scelte coscienti di raggruppamenti più o meno estesi, ma al
rapporto reciproco fra condizioni oggettive e il loro superamento più o meno
cosciente in cui le organizzazioni di classe si trovano a coesistere.
Riteniamo che il ruolo di adattamento delle organizzazioni alle specifiche condizioni storiche espresse dalla
classe, in momenti in cui questa non necessitava di un cambiamento
rivoluzionario, abbiano portato alla creazione di organizzazioni in grado di
gestire l'integrazione del proletariato alle esigenze dell'accumulazione.
Questo meccanismo adattivo porta le organizzazioni a sparire e a diventare
irrilevanti. Nel caso in cui riescano ad adattarsi diventano un limite per lo sviluppo del
movimento di classe perché esprimono le istanze di integrazione con il
capitale.
Le stesse forme organizzative, la stessa auto-organizzazione non è che
un prodotto del meccanismo sopra descritto, e non è certamente la soluzione
perfetta. Anche l'auto-organizzazione di proletari non garantisce gli interessi
storici di classe, che si trova sempre dentro al meccanismo
soggettivo-oggettivo, in un rapporto dialettico unitario ossia nel rapporto tra
lotta di classe e accumulazione del capitale stesso.
In un processo storico concreto la conflittualità espressa dalla classe
ha come substrato necessario lo sviluppo di nuovi rapporti sociali che non sono
limitati all'ambito vertenziale del conflitto di classe, ma che si estendono a
tutte le forme di conflitto e cooperazione poste in essere dalla classe e da
raggruppamenti di proletari più o meno estesi.
Questa dinamica appare anche in una piccola lotta quando si sviluppano
nuovi rapporti sociali, che sono la ri-scoperta della vita da parte dell’uomo.
In questo senso va letta l'importanza che poniamo sull’esperienza proletaria
delle lotte. Dentro ad un processo di de-integrazione del capitale stesso
sparisce la dicotomia fra conflitto e mutualismo, forme che si scambiano
reciprocamente, perché assumono un connotato diverso. Partecipare ad una lotta
di lavoratori su un posto di lavoro, in una manifestazione che rompe la
compatibilità Politica, o occupare edifici, espropriare e distribuire in modo
gratuito sono aspetti della medesima dinamica. Se pensiamo al declino delle
istituzioni pubbliche sociali, allo scollamento tra settori di lavoratori ed
enti statali deputati alla gestione della riproduzione di forza lavoro, come
alla sanità o alla scuola ecc.. questa dinamica potrebbe creare una reazione
che supererebbe la mera difesa del mito dello “stato sociale”. Gruppi di
lavoratori potrebbero iniziare a porre la gestione diretta di questi aspetti
riappropriandosi direttamente delle proprie conoscenze. Una simile dinamica può
avvenire anche su un piano ben più generale se visto in potenza. Non si tratta
di riunire proprietà e lavoro, ma di ritrovare un’attività umana, che ha un
senso molto più profondo del termine produzione, che non ha limiti nella sua
dinamica collettiva. Potrebbe essere la
sperimentazione di possibilità diverse da quelle definite dal capitale per il
soddisfacimento dei propri bisogni, che a loro volta metterebbero in dubbio
vecchie necessità introducendone di nuove. La possibilità di trovare una
coincidenza tra rapporto sociale e rapporto di produzione. Sia il conflitto che
il mutualismo sono elementi che servono al Capitale ma in determinati contesti
sono elementi di rottura. Questi fenomeni devono essere
interpretati nella loro specificità storica attuale, dove queste
attività assumono un connotato di rottura nel loro essere vissute, producendo a loro volta nuove connessioni tra loro.
Man mano che si sviluppano connessioni tra questi momenti di rottura è
inevitabile che si incrini l’apparente legge naturale della produzione
capitalista, la legge del valore. Ogni connessione tra questi momenti, tra
differenti settori di classe che attuano queste rotture provoca non pochi
turbamenti a chi crede eterna la legge del Capitale.
E’ indubbio che la radicalità di simili azioni e dinamiche accresce nel
momento in cui vengono messi in
discussione il modo di produzione capitalista e lo Stato, che, non bisogna
dimenticare, mantiene il monopolio della violenza. Ma l’ideologia dominante, il
pensiero dominante, e la forza da sole non bastano, non possono produrre nulla.
L’intera società si basa sul lavoro produttivo e riproduttivo. Oggi attraverso
l’estensione quantitativa del sistema di produzione capitalistico i proletari
hanno una forza potenziale immensa. Perché se da un punto di vista sociale vi è
una de-integrazione da un punto di vista produttivo vi è una massificazione del
capitale a livello totale che ingloba tutto e tutti. Per certi versi il moderno
capitale totale, impersonale e parassitario rende sempre più stridente questo
scarto tra la forza sociale del proletariato e la società stessa. In questo
senso l’ideologia, la forza, lo stesso Stato sono elementi che pur apparendo
mastodontici sono anch’essi travolti dai meccanismi stessi dell’accumulazione
capitalista e dalla relativa lotta di classe.
Dal nostro punto di vista questa dinamica rende inefficace sia corse in
avanti, nuovi Principi di Macchiavelli, come fughe all’indietro, il
neo-primitivismo o il localismo comunitario
poichè non vi può essere nulla al di fuori del Capitale se non dentro un
piano di rottura. Si può cogliere la carica critica verso l’economia politica e
la politica stessa partecipando a questa dinamica de-integrativa del capitale,
al salto quantitativo che diventa qualitativo, quando nuovi rapporti sociali si
manifestano. All’interno della de-integrazione, nuovi rapporti sociali possono
sovvertire i rapporti di produzione poiché incompatibili con l'accumulazione,
spingere ad abbandonare una pratica di compatibilità integrativa del movimento
di classe (e delle organizzazioni che continuano necessariamente a esprimerlo)
e riuscire ad imporsi come il nuovo fulcro per il cambiamento della società.
Questo processo non è la conseguenza di una maggiore consapevolezza del
movimento di classe, quest'ultimo segue la capacità della classe di farsi
carico di cambiamenti storici rilevanti a seguito della crisi dei rapporti
capitalistici che attraversano la società.
In fondo, il ruolo, se esiste, dei pro-rivoluzionari è quello di
individuare delle tendenze: la storicità del sistema capitalista e delle sue
leggi e il disvelamento dell’affermazione di una nuova umanità che nega il
capitale.
In questo senso un lavoro di connessione e inchiesta tra compagni e
compagne di diversi paesi vale molto più di mille appelli alla rivoluzione o
alla costituzione di nuove organizzazioni. Il nostro lavoro collettivo, nei
suoi limiti inevitabili, è già anticipazione e la sua efficacia non si
dimostrerà nel numero di copie vendute, ma nell’effettivo manifestarsi di nuovi
rapporti sociali che generalizzandosi e connettendosi, intaccando gli stessi,
rapporti di produzione distruggeranno la logica stessa del capitale.
Estate 2012, Italia
Redazione di CONNESSIONI
per la lotta di classe
RispondiEliminaLa Sig.ra CINZIA Milani la ha salvata della disonestà dei poveri africani assetati di denaro accordandomi un credito di
35000 euro su una durata di 5 anni affinché il mio sognati diventino realtà. Prego a tutti coloro che hanno potuto usufruire di questi servizi, di volere ritornare testimoniarne per permettere all'altra gente nella necessità, di potere trovare anche un ricorso affidabile. Vi lascio il suo indirizzo professionale: cinziamilani62@gmail.com