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Inutile ripetere che siamo presi nel vortice della peggiore crisi che il capitalismo abbia conosciuto fin dagli anni trenta: dirlo è diventato un mantra, anche nei mass media. Ma perché ci ritroviamo in questa merda? La linea di condotta (o d’inazione) raccomandata dipende dalla risposta data a questa domanda. Il modo specifico in cui si definisce la crisi implica di per sé una risposta. I mass media ci hanno inondato con i loro discorsi sull’avidità, la cattiva gestione e la mancanza di regolamentazione. Il modello «anglosassone», «neoliberale» dei mercati liberi e deregolati è completamente screditato, gli eroi economici della destra sono caduti dal loro piedistallo, e il buon vecchio Keynes è tornato di moda. Questo nuovo consenso favorisce una maggiore regolamentazione, un maggiore intervento statale, e la creazione di più debito da parte dello Stato per contrastare la tendenza deflazionistica che attanaglia l’economia. La discussione, che, per sua natura, è condotta dalla sinistra dello spettro politico capitalista, si concentra solo sul grado di tali interventi. Essa contrappone coloro che credono che calibrando la simbiosi tra lo Stato e il capitale privato si giungerà al migliore dei mondi possibili, e coloro che delirando, credono ancora che, statalizzando gradualmente l'economia, si farà passare la società capitalistica al socialismo. Ma quest’ultimi condividono con i primi una visione secondo la quale la crisi è generata dall’avidità, dalla cattiva gestione e dalla deregolamentazione. Entrambe le visioni criticano il capitalismo, a vari gradi, ma la loro critica è positiva. Entrambe condividono e diffondono la convinzione che il capitalismo può essere migliorato. Circostanza che ne fà i più importanti sostenitori del capitalismo oggi.
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