mercoledì 18 aprile 2012

WELFARE STATE


WELFARE STATE

di Visconte  Grisi

Il problema non è la caduta, il problema è l’atterraggio.
Dal film “L’odio” di Mathieu Kassovitz – Francia 1995

 Alcuni anni fa sono comparsi su questa rivista alcuni articoli di analisi sul  welfare a cui rimando per gli eventuali approfondimenti della questione. Mi limiterò quindi a riassumerne i punti salienti.
 Dal punto di vista dei lavoratori salariati il welfare si configura essenzialmente come salario indiretto gestito dallo Stato. A questo punto potrebbe già porsi una prima domanda : come mai il movimento operaio, o per lo meno la sua parte maggioritaria, ha accettato questa gestione ? Rispondere a questa domanda comporterebbe una seria e approfondita discussione sulla natura e sulle manifestazioni dell’antagonismo di classe, a meno che non si voglia ammettere, in prima approssimazione, che il cosiddetto movimento operaio abbia imboccato un vicolo cieco i cui effetti nefasti non cessano di manifestarsi fino ai nostri giorni.


 Detto questo, comunque, è importante sottolineare che il welfare non ha portato ad alcuna redistribuzione del reddito fra le classi. Alcuni studi statistici compiuti in Germania hanno dimostrato che quanto viene consumato dai lavoratori in termini di pensioni, sanità, istruzione, salario sociale ecc. non è mai andato oltre quanto versato dai lavoratori stessi in termini di contributi o tasse allo Stato. Tuttavia, poiché il salario, al di là del suo aspetto quantitativo, si configura essenzialmente come un rapporto sociale, la difesa della qualità della vita dei lavoratori non può che manifestarsi oggi, almeno in parte, attraverso la difesa di quanto resta dello stato sociale.   
 Dal punto di vista del capitale non tutto il welfare si configura come salario indiretto dei lavoratori. Oltre alle pensioni, sanità, scuola ecc. ci sono anche le spese militari, le infrastrutture, le grandi opere pubbliche ecc. Dal punto di vista del capitale il welfare si configura quindi essenzialmente come sostegno della domanda integrata, secondo la nota ricetta keynesiana per l’uscita dalla crisi.
 Qualche capitalista certamente aumenta i suoi profitti attraverso la domanda sostenuta dallo Stato, ma, come è stato esaurientemente dimostrato da Paul Mattick nel suo famoso lavoro sui limiti dell’economia mista, la domanda aggiuntiva statale non crea profitti aggiuntivi per il capitale nel suo complesso. Sia nel caso che la domanda venga sostenuta dal prelievo fiscale, sia nel caso che venga incrementata attraverso il debito pubblico, la domanda aggiuntiva creata oggi dovra’ essere ripagata con i profitti di domani. Se la ripresa dei profitti non avviene si avrà un indefinito periodo di stagnazione economica.
 In questo caso un calo dell’accumulazione, quindi della tassazione sui profitti e sui redditi, determinerà una diminuzione del prelievo fiscale e quindi un calo della spesa pubblica, mentre è ampiamente dimostrato dai fatti che il deficit pubblico non può essere sostenuto a lungo. Per quanto riguarda il salario indiretto un suo aumento può essere posto in relazione con l’aumento della produttività del lavoro, mentre, al contrario, la sua diminuzione è strettamente correlata a un calo della produttività.
 Anche qui si può porre una domanda : lo stato sociale è frutto di una “conquista” operaia o della cogestione? Le due cose probabilmente sono molto intrecciate : in Germania, ad esempio, prevale sicuramente la cogestione e lo stato sociale appare più solido ; in Italia, invece, in una situazione capitalistica più “arretrata”, lo stato sociale appare come “conquista” delle lotte operaie, ma è anche enormemente più fragile. Paradossalmente lo stato sociale tiene di più dove meno lotte sono state necessarie per ottenerlo, e dove si è formata un tipo di “coscienza” operaia che, in altri tempi, si sarebbe definita “tradeunionista”.
 Storicamente il periodo d’oro del welfare si può far risalire agli anni 30 del 900, con il new deal roosveltiano negli Stati Uniti, la politica sociale del fascismo in Italia, il Fronte Popolare in Francia, fino a sboccare, in Germania con il nazionalsocialismo, nell’economia di guerra. Paradossalmente la ricetta keynesiana funziona al massimo nell’economia di guerra, quando praticamente tutta la produzione  è  comprata  dallo  stato,  il risparmio  privato  è  ridotto  ai  minimi  termini, i  salari  si

mantengono bassi e vi è un uso intensivo del capitale fisso (del macchinario) per la produzione bellica, praticamente senza investimenti aggiuntivi.
  Questa situazione ha favorito indubbiamente il successivo boom del dopoguerra, nel quale la ripresa dell’accumulazione vede comunque una riduzione al minimo del deficit pubblico. Ma di fronte alla susseguente crisi degli anni 70 la manovra sul deficit pubblico fallisce clamorosamente. Non solo non vi è ripresa dei profitti ma i vari finanziamenti pubblici alle imprese o i capitali rastrellati mediante emissione di titoli di stato vanno in definitiva ad ingrossare il capitale speculativo finanziario, nel frattempo enormemente cresciuto, oltre che a contribuire all’arricchimento personale di vari personaggi legati a gruppi di potere.
 Negli anni 90 la crisi permanente dell’accumulazione vede il declino ormai irreversibile del welfare. Ancora una volta paradossalmente i tagli più consistenti vengono effettuati da governi “di sinistra”. Il governo Berlusconi, da parte sua, non opera tagli drastici dello stato sociale, anche perché la riduzione del salario viene assicurata da una inflazione senza precedenti mascherata dall’introduzione dell’euro. Probabilmente dovremo aspettarci ulteriori tagli dal prossimo governo, di destra o di sinistra che sia, mentre continua e si rafforza l’arricchimento privato a spese del denaro pubblico che va sotto il nome di “privatizzazioni”.
 A questo proposito, nella pubblicistica corrente, si confrontano due modelli : il modello renano, ovvero franco-tedesco, con le sue tradizionali garanzie nei confronti del lavoro normato, pur fortemente messo in discussione come dimostrano i recenti avvenimenti francesi ; e il modello anglosassone, cavallo di battaglia di Toni Blair, che prevede un arretramento programmatico dello stato sociale fino a garantire solo il contenimento entro limiti di sopravvivenza delle fasce più povere della popolazione. E’ chiaro che un ulteriore aggravamento della crisi farebbe pendere la bilancia dalla parte del secondo.
 Ma, nel frattempo, che cosa sta avvenendo all’interno delle varie istituzioni dello stato sociale ? Prendo ad esempio ciò che succede nella sanità. Vi è, da parte della direzione a livello regionale o di ASL, una pressione continua per il contenimento dei costi. Ciò viene ottenuto con un controllo sempre più asfissiante su ogni singolo operatore o “erogatore di spesa” ottenuto con vari mezzi : uso degli strumenti elettronici per il controllo “on line” in tempo reale della spesa erogata, regolamenti sempre più bizantini e difficili da applicare, iniziative intimidatorie di vario genere. Aumenta il lavoro di tipo burocratico a scapito di quello clinico o di relazione. Una possibile via d’uscita potrebbe essere rappresentata dall’incentivazione a varie forme di associazionismo dal basso con una relativa autonomia degli operatori, ma questi tentativi, pur apprezzabili, vengono continuamente frustrati dagli interventi tesi a ridurre di fatto questa autonomia. Si ha inoltre l’impressione di un continuo dirottamento di fondi pubblici verso il settore privato con il risultato, alla fine, di incrementare i costi complessivi.  
 E’ evidente che tutta questa storia è un presente che sa di passato, come ben testimoniano le ultime rivolte in Francia. In realtà nessuno può dire cosa succederà. L’indefinito periodo di stagnazione, di cui parlavamo all’inizio, può subire inaspettate e improvvise accelerazioni con un aggravarsi della disgregazione sociale. La rivolta di per sé non è sufficiente per opporsi, ma dovrà coinvolgere i settori produttivi della società. Il modello di disgregazione, in fondo, è quello già visto all’opera durante la crisi sovietica : disfunzionalità totale del sistema, usura della struttura materiale della produzione e logoramento delle risorse produttive della società che del resto già si manifestano nelle forme più svariate (black out energetici, disastri ferroviari, incapacità di risposta a catastrofi naturali ecc.), fino ad arrivare ad un punto in cui lo stesso valore d’uso delle merci viene posto in discussione.
 A questo punto dovrebbe essere del tutto chiaro che il declino del welfare state è solo una parte del declino più generale della società capitalistica nel suo insieme e che, di conseguenza, l’opposizione al progressivo smantellamento dello stato sociale, pur necessaria, non ha prospettive se manca una presa  di  coscienza  di  questo  generale  declino. Vorrei  subito  precisare che parlare di declino del

capitalismo non ha niente a che vedere con la teoria del crollo, corrente nella III internazionale. Quella era una cattiva teoria che non teneva conto del fatto che, nelle crisi cicliche di sovraccumulazione, il meccanismo stesso di risoluzione della crisi poneva le basi per la ripresa dell’accumulazione, mediante una distruzione accelerata di capitale. Il fatto è che questo meccanismo sembra non funzionare più da trenta anni a questa parte, ma questo non produce un crollo, ma l'avvio di una fase di declino più o meno lenta, con le sue possibili accelerazioni. Abbiamo a che fare di fatto con la decadenza storica di un modo di produzione e quindi con processi di involuzione di lungo periodo.
 Se questo è lo scenario complessivo in cui siamo costretti a muoverci possiamo tentare di individuarne le cause o le manifestazioni senza, per il momento, distinguere fra le une e le altre. Accenniamo soltanto alle principali
I limiti che il rapporto capitalistico pone all’introduzione di nuove tecnologie nei settori portanti della produzione fino a configurare un vero e proprio limite allo sviluppo. Vi è una tendenza al blocco degli investimenti, mentre ricerche empiriche dimostrano che l’introduzione della microelettronica nei settori produttivi segna il passo, determinando un ristagno nella produttività. Come conseguenza di tutto ciò abbiamo un aumento dell’orario di lavoro.
La crescita incontrollata del capitale finanziario speculativo richiede un flusso netto positivo di denaro che viene sottratto all’accumulazione, determinando, di conseguenza, la riduzione forzata dei costi di produzione attraverso l’uso intensivo di capitale fisso e forza lavoro. La tendenza è verso un sistema a riproduzione semplice in cui i profitti non vengono accumulati ma escono dalla circolazione del capitale produttivo.
La spettacolarizzazione della politica, già annunciata dai situazionisti, cresce continuamente in maniera direttamente proporzionale alla sua impotenza. Nessuno sa esattamente cosa fare per favorire una improbabile “ripresa” ma Berlusconi sembra paradossalmente più “cosciente” del fatto, traendone naturalmente motivi per giustificare il suo arricchimento personale. La sensazione di impotenza coinvolge di fatto anche la politica “rivoluzionaria” o “antagonista”.
Effetti sociali della decadenza sono la disgregazione sociale, la scomparsa della società civile e delle classi agenti. Sorge un nuovo comunitarismo ; al posto della vecchia comunità operaia si formano comunità etniche, comunità di interesse legate allo scambio, comunità residenziali che danno accesso a uno stile di vita, comunità virtuali nelle reti informatiche.
Cresce l’importanza del controllo del sapere e della scienza. Senza la rottura di questo controllo un cambiamento radicale non sembra possibile. Cresce parallelamente la necessità, in situazioni di crisi estrema, di una alleanza fra classi subalterne e strati di lavoratori tecnico-scientifici interni alla produzione.
 Per finire e tornare all’attualità vale la pena soffermarsi sulle recenti lotte in Val di Susa e sulle componenti che in esse hanno interagito, e cioè sostanzialmente : 1) una comunità locale unita non da vincoli etnici ma da interessi comuni ; 2) un movimento globale antisistemico ; 3) una componente operaia organizzata in forme non istituzionali ; 4) un gruppo di ricercatori dell’Università di Torino. Un buon esempio per le lotte a venire.


In Collegamenti woobly, 2006

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