Letture di classe
Lavoro, democrazia, autogestione
«La
‘libertà di coalizione’, conquistata dalle organizzazioni proletarie nel
passato e goduta attualmente, mostra la tendenza a trasformarsi in una
formale ‘costrizione alla coalizione’».
Karl
Korsch, Legislazione del lavoro per i consigli aziendali, ora in Scritti politici,
a cura di Gian Enrico Rusconi, Laterza, Bari, 1975.
Nel corso del Novecento, la triade lavoro-democrazia-autogestione è stata
variamente declinata. L’esito è stato funzionale al modo di produzione
capitalistico. E non poteva avvenire diversamente. Tuttavia, il processo che ha
accompagnato e ha prodotto tale esito è stato assai accidentato e contraddittorio,
con momenti che, seppur per lo spazio di un mattino, hanno fatto balenare una
differente prospettiva.
Cruciali furono gli anni
1943-1945, in
cui il movimento proletario italiano presenta un’esperienza emblematica.
Abitualmente, le vicende
del movimento operaio organizzato italiano di quegli anni sono ricondotte a fattori
internazionali, ovvero alla contrapposizione Usa-Ursss.
Certamente lo furono, ma fino a un certo punto. Sottotraccia, ma neppure tanto,
agivano tendenze che traevano origine e sostanza nelle precedenti vicende del
movimento operaio e contadino del nostro Paese; erano tendenze di natura
socialista, anarchica e cattolica, che, successivamente, si erano scontrate – e
in alcuni casi incontrate – con il fascismo. Il fascismo marchiò, nel bene e
nel male, un ventennio della vita sociale e politica delle classi subalterne
italiane, con tratti destinati a sopravvivergli e a connotare, il nuovo
sindacalismo.
Una
tribolata transizione
Nel trentennio 1914-1945 aveva
preso avvio il processo di integrazione della forza lavoro all’interno dello
Stato capitalistico italiano, che aprì la strada a ciò che di lì a poco sarebbe
avvenuto nei principali Paesi industrializzati, o in via di esserlo[1]. Per
quanto fosse ricorsa a procedimenti coercitivi – prima con l’economia di guerra
e poi con la dittatura –, l’integrazione italiana non fu priva di momenti di
consenso che, nel mutato clima politico della Repubblica, potevano, e dovevano,
assumere uno spazio maggiore, su basi democratiche. Il consenso, ovviamente, avrebbe
potuto far meglio «digerire» ai proletari il pesante onere della ricostruzione economica.
In questi frangenti, la transizione sindacale fu inevitabilmente travagliata in
quanto, a parte i fattori contingenti (le difficoltà del dopo guerra), la
struttura stessa del capitalismo italiano – e in particolare dopo il ventennio
fascista – presentava, come presenta ancor oggi, aree assai evolute accanto ad
altre di grande arretratezza, nonché la commistione di attività ibride con i
conseguenti riflessi nella composizione della classe operaia, in cui fu a lungo costante ( e in parte lo è ancora) la
presenza di attività semi agricole e semi artigiane, in gran parte «sommerse».
Frutto di
queste variegate esperienze e situazioni, fu l’organizzazione sindacale che prese
piede verso la fine della guerra. Sacchetti ne ripercorre i momenti salienti, a
partire dalla costituzione della Cgil
«unitaria», per opera dei partiti di «massa» del Cln: Pci, Psiup e Dc
(Patto di Roma, 3 giugno 1944). Nel giro di pochi mesi, questi partiti stroncarono
il tentativo di ricostruire la Cgdl prefascista, attuato da ex sindacalisti
aderenti alle posizioni della dissidenza comunista e socialista di sinistra (bordighisti
e trotskisti, tra cui Enrico Russo e Nicola Di Bartolomeo), con l’appoggio di
alcuni militanti vicini al PdA (in primis
Dino Gentili). Ma non stroncarono l’orientamento classista che aveva ispirato
questo tentativo e che si manifestò, inevitabilmente, nel nuovo sindacato, in
particolare nella componente anarcosindacalista e nelle minoranze della
sinistra socialista e comunista, che si opponevano al nuovo indirizzo
nazionalista (con l’obiettivo della ricostruzione nazionale), impresso pesantemente
dal Pci di Togliatti. Mentre
queste ultime non riuscirono a dar sviluppo alle loro posizioni, gli anarchici
che, dopo un’effimera ricostruzione dell’Usi[2],
avevano scelto di aderire alla Cgil,
svolsero un ruolo più pregante. Seppure non privo di contraddizioni e destinato
anch’esso al minoritarismo, l’anarcosindacalismo ha espresso posizioni assai
significative, per le implicazioni che ebbero negli ulteriori sviluppi delle
lotte operaie, e soprattutto perché rivendicò il valore dell’azione diretta e
si oppose al centralismo e alla forte impronta politica della Cgil.
Due figure emblematiche
Filo conduttore
del libro di Sacchetti sono due figure emblematiche del movimento operaio italiano:
Giuseppe Di Vittorio, segretario della Cgil,
e Attilio Sassi[3],
storico dirigente della Federazione Italiana Minatori e Cavatori, che nella Cgil ebbe una posizione di rilievo.
Entrambi – Di
Vittorio e Sassi –, nei primi anni del Novecento, maturarono le loro prime esperienze
di lotta nell’anarcosindacalismo e parteciparono alla fondazione dell’Unione
sindacale italiana (Usi), nel 1912.
Diversa fu invece la loro successiva evoluzione politica.
Di Vittorio –
che nel 1915 fu interventista[4] –
dopo la guerra aderì al Psi, e,
nel 1923, passò al Partito comunista, nel momento in cui questo partito stava
imboccando quella via che dallo stalinismo lo avrebbe portato al
nazional-comunismo di Togliatti, il cui corollario fu la concezione statalista
del sindacato, comune a Mussolini e a Stalin.
Sassi, sempre
in prima linea sul fronte delle lotte operaie, non si scostò mai dall’antagonismo
tra lavoro e capitale, comunque esso si presentasse, nonché da una visione
internazionalista.
La divaricazione
politica che investì i due sindacalisti toccò in modo altrettanto divergente un
punto cruciale, nonostante apparentemente fosse comune ad entrambi: l’autogestione.
Con Di
Vittorio, il concetto di autogestione trascende nella logica produttivista – sottintendendo
la cogestione –, che informò l’azione
sindacale partecipazionista negli
anni in cui Pci e Psiup furono al governo (1944-1947), in
cui gli interessi operai furono subordinati o, nella migliore delle ipotesi,
combinati a quelli della ricostruzione nazionale. Ma che si ripropose anche
quando le sinistre ne furono estromesse; nel frattempo, la Dc
aveva abbandonato la Cgil, per fondare la Cisl,
cui fece seguito l’uscita della destra socialista di Giuseppe Saragat e dei
repubblicani, che fondarono la Uil. Formalmente
divise, le tre confederazioni erano unite nella sostanza, moderazione
rivendicativa, contribuendo alla definizione di quella farraginosa struttura
del salario che, arricchita da premi e incentivi, si trasformò in una molla
poderosa per lo sfruttamento intensificato, continuativo e «volontario»
dell’operaio[5].
Se alcuni piccoli strati, l’aristocrazia operaia, ebbero qualche modesto
vantaggio salariale, la maggioranza degli operai visse a lungo ai limiti della
sussistenza.
Punto
culminante della strategia produttivista fu il Piano del Lavoro, che Di Vittorio
presentò nel 1949 al secondo congresso della Cgil.
La proposta – che formalmente non ebbe seguito – si iscriveva nella tattica della
democrazia progressiva di Togliatti, la cui seconda versione fu, negli anni
Sessanta e Settanta, la strategia basata sulle riforme di struttura. Nella
migliore delle ipotesi, questa concezione intendeva riformare il capitalismo
dall’interno, affidando ai lavoratori l’onore e l’onere della trasformazione
produttiva, le cui direttrici di marcia sarebbero state comunque stabilite
dall’azione politica parlamentare; in realtà, essa si tradusse in un
accresciuto fardello, a tutto scapito dei lavoratori. E, nella successiva
evoluzione del modo di produzione capitalistico – con i conseguenti mutamenti
della composizione di classe – mal si incontrò (vedi piazza Statuto, 8 luglio
1962), con le spinte autonome di operai che subivano un’organizzazione del
lavoro (fordismo) del tutto estranea a quella del vecchio operaio di mestiere, che
conservava, e valorizzava, le sue specifiche «abilità» (skill), ed era quindi più sensibile ai richiami produttivistici,
dal momento che credeva di padroneggiarli, e in parte ci riusciva.
Condizione,
quest’ultima, che si rifletteva nella visione di Sassi, in cui l’autogestione, dalla
forte connotazione classista e conflittuale, si coniugava appunto con l’intento
di poter controllare la produzione, grazie alla conquista di spazi di autonomia
operaia, all’interno della fabbrica, e dar quindi vita a un diverso modo di produzione.
Concezione peraltro presente nel consiliarismo di Gramsci, che fu la versione
moderata, o meglio «arretrata», di quanto stava allora maturando in Germania, come
ben sottolineò Enzo Rutigliano[6].
Dall’autogestione al tradeunionismo,
passando per la
democrazia operaia
Comunque intesa
e coniugata – nella versione conflittuale come in quella cogestionale –
l’autogestione proponeva soluzioni che, in una fase di svolta e di mutamenti, sarebbero
passate in secondo piano, sotto la spinta dello sviluppo e della
riorganizzazione industriale, che l’Italia visse negli anni del boom economico.
Per inciso, nelle fabbriche i tecnici stavano emergendo professionalmente,
crescendo di numero, e, sostituendosi alla vecchia aristocrazia operaia, rivendicavano
una migliore posizione nella gerarchia del lavoro. Di pari passo, la stragrande
maggioranza degli impiegati perdeva privilegi – reali o presunti – e si avvicinava
alla condizione operaia.
Per certi versi
– e forse soprattutto nella versione operaista di Raniero Panzieri-«Quaderni
Rossi», il «controllo operaio» –, l’autogestione rappresentò, suo malgrado, il background «democratico» della transizione
verso un moderno sindacalismo, che meglio rispondesse alle nuove esigenze
produttive. Transizione che inevitabilmente seppellì anche le residue illusioni
di un ipotetico «sindacato di classe» (o «sindacato rosso»).
In quegli anni,
in ambito sindacale si intrecciarono fattori di differente provenienza ideologica,
comprese le elaborazioni del padronato illuminato (Adriano Olivetti); un aspetto
importante svolse il solidarismo cristiano della Cisl (o meglio delle Acli)
e, soprattutto, il ruolo che questo sindacato dava alle federazioni e alla contrattazione
aziendale, trovando poi consenso anche da parte della Cgil, sulla via di
rivedere l’indirizzo centralista. Nel corso degli anni Sessanta, le stesse esigenze
dei lavoratori, dopo anni di «astinenza»[7], fecero
sorgere un nuovo clima sindacale, favorendo l’unificazione delle tre confederazioni[8] e la nascita,
poi, del Sindacato dei Consigli, che nel 1969 avrebbe seppellito le vecchie
Commissioni Interne, dando spazio alla democrazia operaia.
Il punto
culminante fu l’autunno caldo, che inaugurò la stagione del tradunionismo italiano,
in cui la classe operaia cercò di recuperare, e in parte recuperò, il terreno
perduto, non solo in termini salariali, ma soprattutto per quanto riguarda l’orario
di lavoro che, malgrado il forte aumento della produttività, era rimasto invariato
per almeno due decenni, anzi, aggravato dal costante ricorso agli straordinari[9].
Ma questa fu
una breve stagione; fu presto raggelata dall’incombere di una nuova congiuntura
economica, che poneva fine al lungo ciclo di accumulazione iniziato nel dopo
guerra. Nuovi e spinosi problemi si sarebbero poi presentati.
E qui si ferma
Sacchetti, dopo aver descritto i passaggi che hanno preceduto questo vero e
proprio nodo storico. Descrizione puntuale e interessante, quella svolta da Sacchetti,
che tuttavia dà adito a qualche incertezza interpretativa, poiché non sono
espresse in modo esplicito quelle cause strutturali – l’evoluzione del processo
di accumulazione capitalistico, in Italia e in Occidente –, che sono
all’origine delle diverse, e a volte contrastanti, forme ed espressioni del
sindacalismo italiano. E che non possono essere ricondotte alla mera organizzazione
tecnica del lavoro, poiché anch’essa è frutto di qualche cosa di ben più profondo,
che è in costante evoluzione, con bruschi, e a volte rovinosi, mutamenti di rotta.
Trascurare, senza
definire, ciò che bolle nella pentola del capitale, favorisce una visione generica
dei rapporti di produzione – come se il capitale fosse un perpetuum immobile, congenito alla società –, condannandoci a un’impotente
coazione a ripetere. Come sta avvenendo da qualche anno a questa parte, svelando
una profonda carenza teorica (nonché organizzativa) ad affrontare le
conseguenze di una crisi sempre più devastante.
Dino Erba, Milano 5 luglio 2012.
* Giorgio Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti libertarie nel
sindacalismo italiano (1944-1969), Aracne,
Roma, 2012. Pp.372, 21 €.
[1] L’apologia del lavoro nonché della tecnica ebbe il suo
exploit nei regimi totalitari, e
forse più con il nazismo che con il nazional-comunismo staliniano; si diffuse
poi nei regimi democratici attraverso il keynesismo, che ne rappresenta la
forma storicamente più compiuta. In merito all’Italia, vedi Giorgio Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti libertarie nel sindacalismo
italiano (1944-1969), Aracne,
Roma, 2012.pp. 25-33.
[2] Nel 1950, di fronte alla persistente limitazione degli
spazi di intervento, alcuni sindacalisti anarchici dettero vita all’Usi, la cui presenza restò tuttavia
circoscritta ad alcune zone della Toscana, della Liguria e della Puglia. Cfr. Giorgio Sacchetti, Lavoro, democrazia, autogestione, op. cit., pp. 126-127.
[3] Su Sassi, vedi: Tomaso
Marabini, Giorgio Sacchetti, Roberto Zani, Attilio Sassi detto
Bestione – Autobiografia di un sindacalista libertario, Zero in Condotta,
Milano, 2008 (con CD).
[4] L’interventismo non fu l’unico neo di Di Vittorio:
cfr. Franco Schirone (a cura di), Il mito dell’unità operaia e il «Pensiero»
di Di Vittorio, «Autogestione», Primavera 1980, p. 71.
[5] Nel 1967 – due anni prima dell’autunno caldo –, gli
infortuni sul lavoro erano cresciuti del 9% rispetto l’anno precedente e i morti
dell’8%. «Gli straordinari prolungano il lavoro fino a 12 ore al giorno,
vengono ritenuti troppo pesanti, insostenibili, ma altrettanto inevitabili per
i bassi salari. Un lavoratore esplicitamente avverte che “limitare lo
straordinario scatenerebbe il putiferio”». Giovanni
Berlinguer, La salute nelle fabbriche, De Donato, Bari, 1969, p.
5 e p. 58.
[6] Enzo Rutigliano, La
classe operaia come redentrice del lavoro nel Gramsci ordinovista, in Enzo Rutigliano, Lo sguardo dell’angelo. Su Walter Benjamin, Dedalo Libri, Bari, 1981, p. 87 e ss. Vedi
anche: Giuseppe Andrea Manias,
Antonio Gramsci e il movimento anarchico nel periodo de L’Ordine Nuovo.
Seguito da Camillo Berneri tra Antonio Gramsci e Carlo Rosselli, Introduzione
di Aldo Borghesi, pp. 44, Quaderni Pietro Tresso, n. 63, Firenze, dicembre
2007.
[7] Sulle lotte operaie degli anni Cinquanta e Sessanta in
Italia, vedi: http://www.chicago86.org/.
[8] Oggi si stenta a crederlo, ma allora un composito
fronte di estrema sinistra, che andava dagli internazionalisti di programma comunista
ai filo cinesi, osteggiò l’unificazione sindacale
in nome di una presunta origine «rossa» della Cgil.
[9] A livello internazionale, la settimana lavorativa di
40 ore fu proposta a metà degli anni Trenta; in Italia i primi passi avvennero
solo verso la fine degli anni Cinquanta in alcune
grandi aziende, come Fiat e
Olivetti, in cui si siglarono importanti accordi di riduzione dell’orario che aprirono
la strada alle 40 ore di orario settimanale, con il sabato libero, che fu raggiunto
nel contratto dei metalmeccanici privati nel 1970, seguito nel 1972 dal
contratto dei siderurgici pubblici – con 39 ore settimanali –, e venne conquistato
anche il diritto per tutti alle quattro settimane di ferie.
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