alcuni compagni di Connessioni, estate 2012
“la rivoluzione proletaria non
mancherà,
mentre cambia il mondo,
mentre cambia il mondo,
di educare gli stupidi educatori”
Paul Mattick, 1935
1
Ci sono questioni
che appaiono prive di senso ai più, suscitando ilarità o sdegno, o più
semplicemente vengono considerate prive di interesse.
Oggi il dichiararsi
pro-rivoluzionari, se visti dentro una rappresentazione storica appare
semplicemente un vezzo, una smania, un capriccio. Tuttavia quel demone non
sembra addormentarsi mai, indipendentemente dalle forme in cui può apparire,
prodotto dallo stesse contraddizioni insite nel movimento del capitale.
Fiumi di sangue e
di inchiostro si sono spesi su questo argomento nel secolo passato, arrivando
nelle porzioni più radicali a concepire ciò che era stato (la rivoluzione dei proletaria)
o come tentativi falliti o come sviluppo dello stesso capitalismo.
Non ci interessa
riprendere l’ormai logoro dibattito sulla sconfitta-crisi del movimento
operaio, un tale dibattito fu già intrapreso e in parte risolto già negli anni
20-30 dove le componenti più radicali dell’allora movimento comunista
abbandonarono la categoria del tradimento, per descrivere il processo di
integrazione esercitato dal movimento del capitale sul proletariato, visto come
parte dello stesso movimento del capitale. E’ singolare che queste
considerazioni sia state elaborate dal filone comunista dei consigli e successivamente dalla sinistra comunista italiana, le uniche due correnti che si posero
il problema di un reale bilancio dell’esperienza proletaria da loro
attraversata, avendo rappresentato nel momento più acuto di rottura nel primo
dopo guerra (I guerra mondiale) le componenti più radicali sotto il profilo
dell’azione e della teoria. In special modo fu proprio il filone definito
consiliare che pose l’accento non tanto sul tradimento del vecchio movimento
operaio, ma su quello che era effettivamente stato, non per questo trascurando
le insorgenze proletarie che si erano sviluppate. Spesso vi è stata una
sovrapposizione tra il termine gestionismo
a quello comunista dei consigli,
tuttavia pensiamo, pur ritenendo storicizzata questa esperienza, che posero al
centro l’effettivo contenuto del movimento comunista, inteso come rottura
radicale dal movimento del capitale, e quindi anche dalle sue forme proprie (la
Politica stessa, intesa come attività di separazione). Il vedere la stessa
lotta di classe non solamente in termini antagonistici del capitale, ma come
forma del capitale stesso (il processo di integrazione) è uno dei maggiori
lasciti di questo filone, che al tempo stesso pose l’accento sulla diversa
dinamica del capitale quando questa all’interno di un processo di crisi
produceva de-integrazione, rendendo possibile, ma non automatico, l’apparizione
del proletariato rivoluzionario.
2
Il movimento del
capitale proprio perché elemento dinamico e non statico, produce al suo interno
la sua negazione, che è poi il proletariato rivoluzionario stesso, inteso come
la principale forza produttiva. Questa forza potenziale si libera in base alle
necessità del proletariato stesso, che trova impossibile vivere all’interno dei
limiti stessi del capitale. Ma cosi come il capitale è forza dinamica, resa
sempre più statica dai processi di crisi, cosi la rivoluzione dei proletari è
anch’essa forza dinamica, contrapponendo ai rapporti sociali capitalisti
tendenzialmente sempre più statici i rapporti sociali comunisti sempre più
dinamici. In questo senso si può dire che i rapporti sociali comunisti sono già
il processo rivoluzionario in atto, dove rivoluzionano la rivoluzione.
Riteniamo utile
utilizzare ancora la schematizzazione marxista, basata sulle classi, non viste
nei suoi elementi sociologici o tecnologici, ma dentro gli stessi rapporti di
produzione. Sappiamo che è una approssimazione, il mondo non si è mai diviso
semplicemente in capitalisti e proletari, anzi la presunta stagione d’oro del
proletariato per la sinistra ufficiale e radicale vedeva il proletariato essere
una minoranza rispetto alla società nel suo complesso. Oggi mentre il
proletariato si sviluppa sempre più, si legge da ogni parte della sua fine o la
fine del suo ruolo… non riuscendo a vedere questa dinamica se non con gli occhi
del passato: sindacati, partiti, cooperative, associazionismo, socialismo
municipale, stato popolare, nazionalismo popolare, metro reddituale, tecnologico,
ecc…
Si a l’incapacità,
cosa che riguarda anche noi, di saper leggere le nuove dinamiche della
de-integrazione realizzata dal capitale e la relativa lotta di classe,
utilizzando ancora un approccio stereotipato e storicizzato. Dove un “nuova
fase del capitale” presuppone una “nuova fase della lotta di classe” non tanto
nel suo contenuto ultimo, il movimento del capitale (il vecchio) che si
contrappone al movimento comunista (il nuovo), ma sicuramente nelle forme e
nelle relative quantità. Sotto questo aspetto è lo stesso capitale che crea le
condizioni per il lavoratore collettivo
ma la sua attivazione non è automatica ne invariante. Il lavoratore collettivo
prodotto dallo sviluppo stesso del capitalismo sempre più ramificato e totale è
la forma che non trova più spazio dentro ad un modo di produzione ormai
obsoleto e stagnante. Se sono esistite nel passato forme embrionali di lavoratore collettivo che ha sviluppato
nuovi rapporti sociali, questi erano comunque contraddistinti dalla loro esigua
quantità sia in termini temporali che spaziali.
3
Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce
capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con
un profitto o un salario. "Il risultato del processo di produzione
capitalistico", egli sostiene, "non è quindi né un semplice prodotto
(valore d'uso) né una merce, cioè un valore d'uso avente un valore di scambio
determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il
capitale e quindi l'effettiva conversione di denaro o di merci in capitale,
cosa elle anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a
livello di intenzione di destinazione.
Il processo di
produzione assorbe più lavoro di quanto sia pagato e tale assorbimento, questa
appropriazione del lavoro non pagato che avviene nel processo di produzione
capitalistica ne costituisce lo scopo immediato. Infatti ciò che il capitale (e
quindi il capitalista in quanto tale) vuole produrre, non è nè un valore d'uso
immediato ai fini di autoconsumo, ne una merce destinata a essere trasformata
prima in denaro e poi in valore d'uso. Esso ha come scopo l'arricchimento, la
valorizzazione del capitale, il suo accrescimento, e quindi la conservazione
dell'antico valore e la creazione del plusvalore. E questo prodotto specifico
del processo di produzione capitalistico viene ottenuto proprio grazie allo
scambio con il lavoro che, per questa ragione, è detto produttivo.
Infatti
all'interno del sistema capitalistico, processo di produzione e processo di
circolazione costituiscono una totalità. Bisogna quindi distinguere la
creazione del plusvalore dalla sua distribuzione, poiché la distinzione tra
lavoro produttivo e lavoro improduttivo è attenuata dal fatto che sia nella
sfera della produzione sia in quella della circolazione sono pagati dei salari e
realizzati dei profitti. La divisione del lavoro, considerata come un prodotto
storico dello sviluppo capitalistico e soggetta come tale a continui mutamenti,
fa sì che il capitale si suddivida tra i diversi settori dell'economia di
mercato e, quindi, che i capitali impiegati improduttivamente ricevano una
parte dal plusvalore sociale globale. Analogamente al capitale creatore di
plusvalore, il capitale improduttivo assume la forma d'imprese che forniscono
un profitto medio al capitale che vi e investito. L'unità dei due tipi di
lavoro si può cogliere anche al di fuori del processo capitalistico di
produzione considerato nel suo insieme. Se si analizzano le imprese che
generano plusvalore, si assiste ugualmente a una divisione del lavoro, in
funzione della quale una parte della manodopera crea direttamente del
plusvalore, mentre l'altra lo crea indirettamente.
Potremmo a questo
punto suddividere il lavoro in 3 macro aree:
-Il lavoro
direttamente produttivo di plusvalore sotto forma di merci fisiche e di
informazioni produttive (operai industriali, tecnici, salariati agricoli,
ecc..)
-Il lavoro
indirettamente produttivo che si trova nella sfera della circolazione del
valore (amministrazione, servizi sociali, ecc…)
-Il lavoro di
controllo sulla forza lavoro (poliziotti, preti, capi, ideologi, politici, ecc…)
che è da considerarsi parte indissolubile del capitale nella misura in cui è
interno alle sue necessità riproduttive.
Ma quando Marx parla dello
sviluppo del proletariato rivoluzionario, lo fa sulla base non della distinzione
tra i tipi di lavoro, ma nei cambiamenti che intervengono nei rapporti di
classe mentre continua l'accumulazione del capitale e aumenta quindi la
divisione della società in due grandi classi con una progressiva
proletarizzazione delle masse.
In questo senso la stessa
categoria di ceti medi non è corretta perché rappresenta semplicemente un
periodo reddituale che investe fasce del proletariato o della stessa borghesia.
Non è un caso che il termine classe media in paesi come gli USA abbia avuto una
caratterizzazione più ideologico-sociale che realmente legata a quello che sono
in realtà i rapporti di produzione capitalista.
Quando
utilizziamo il termine lavoratore collettivo, intendiamo una massificazione del
proletariato a classe universale, questa ovviamente non appare come d’incanto,
ma è sicuramente una tendenza insita nello stesso movimento del capitale. La
persistenza di svariate stratificazioni sociali indica solamente la capacità
del movimento del capitale, di esercitare una concorrenza al suo interno, ma
tale da non creare una sua auto-dissoluzione. Il processo integrativo del
capitale aveva dato vita ad un “ceto medio” che da un punto di vista ideologico
rendeva superfluo il solo parlare della rivoluzione, della sua necessità. Le
crepe di quel processo attraverso la de-integrazione porta con se una
polarizzazione che si specchia nella suddivisione teorica marxiana tra
proletariato e borghesia.
4
Ma il proletariato non è di per sé, per essenza la classe
rivoluzionaria insignita del compito di abbattere il capitalismo. Solo in un
processo di formazione, contradditorio e per niente lineare, il proletariato
prodotto dal capitalismo e produttore di questo sistema economico ha, in
determinati momenti storici, la possibilità di assumere un ruolo
rivoluzionario, dove esiste sempre una alternativa tra comunismo o civiltà
presente, affermazione di una nuova umanità e quindi nuovi rapporti sociali che
diventano nuovi rapporti di produzione o sfruttamento, oppressione e miseria,
determinata dal processo storico, e cioè dal processo di accumulazione
capitalista. Ma questo processo non è illimitato e la crisi è dimostrazione di
questi limiti che permettono, ampliando le contraddizioni e i processi di de-integrazione
di classe, lo sviluppo e l’emersione dei movimenti rivoluzionari che vedono nel
lavoratore collettivo il soggetto della trasformazione.
E’ terribile per la psiche dei militanti, ma il
proletariato o è rivoluzionario o non è nulla. Il proletariato rivoluzionario
non è solo attività diretta, ma è la critica dell’economia politica che si
materializza nello sviluppo di nuovi rapporti sociali e quindi di nuova
produzione sociale. Il venir meno di questo processo, nato dai limiti stessi
del capitale, presuppone la fine del proletariato in quanto elemento
rivoluzionario, ma non la sua inattività, anzi, sia i regimi autoritari così
come quelli democratici sono sempre alla ricerca di una nuova comunità
d’intenti, di una “vera” partecipazione. La differenza sostanziale è che mentre
il proletariato rivoluzionario necessariamente pone il problema di una nuova
produzione sociale, rompendo i vincoli del capitale, e quindi pone nella sua
stessa dinamica di lotta l’affermazione in positivo di una nuova umanità negando
la sua stessa entità, l’attività del capitale è fondata su una visione
particolare, dove esiste una contrapposizione di interessi di comunità e di
classe e su questi sviluppa i suoi processi di separazione e affermazione, i
richiami quindi all’unità nazionale e sociale, alla sacralità del lavoro
(salariato), alla morale umanitaria, alla democrazia o all’autorità ecc.. sono
tentativi di “attivare” il proletariato da parte del capitale. Più il capitale
agisce effettivamente nei suoi aspetti particolaristici più si presenta in modo
universalistico. La lotta di classe rivoluzionaria rompe questo meccanismo,
l’azione proletaria ha il potere di superare queste gabbie, ed è quello che è
avvenuto se si analizzano le forme di insorgenza proletaria lette non con gli
occhi dell’ideologia di sinistra (o di destra) ma come mera forza sociale che
nel suo effettivo manifestarsi rompe con l’economia politica e la politica
stessa. Questo è forse il lascito più grande che ci ha consegnato il 900, dove
i movimenti proletari autonomi (consigli, comitati di lotta, ecc..) anche se in
modo limitato nel tempo hanno permesso e sono stati manifestazione di questa
insorgenza.
5
Dal nostro punto di
vista la lotta di classe non è una questione tattica (1). Non consideriamo la
lotta di classe rivoluzionaria come un fenomeno di ogni momento. La concezione
della lotta di classe rivoluzionaria permanente è paragonabile a chi crede alla
concezione borghese di progresso permanente. A parte il feticismo della merce, qualunque sia il significato
che le leggi di mercato possano assumere rispetto ad arricchimenti o perdite
particolari e per quanto possano essere manovrate da questo o quell’altro
gruppo di interesse, in nessuna circostanza possono essere utilizzate a
vantaggio della classe proletaria considerata nel suo complesso. Non è il
mercato che controlla gli individui e determina le relazioni sociali prevalenti
ma piuttosto il fatto che nella società un gruppo separato possiede o controlla
i mezzi di produzione e gli strumenti di repressione. Per sconfiggere il
capitalismo sono necessarie azioni esterne alle relazioni di mercato tra lavoro
e capitale, azioni che aboliscono entrambi, il mercato e le relazioni di
classe. Limitando le azioni all’interno del perimetro capitalistico si sviluppa
solo capitale, indipendentemente dal grado di lotta che si esprime, ma questa
non è dovuta a una mancanza di chiarezza soggettiva ma nella tenuta del vecchio
rispetto al nuovo. Il porre l’accento sulla auto-attività dei proletari
impegnati nella lotta non riveste quindi una problematica legata alle forme ma
al contenuto stesso del processo rivoluzionario.
Già Marx sottolineava nel Capitale: “il movimento ascendente impresso al prezzo
del lavoro dall’accumulazione del capitale dimostra che la catena d’oro a cui
il capitalista tiene legato il salariato in modo indissolubile, e che costui
continua a ribadire, è già abbastanza lunga da permettere un allentamento della
tensione”.
Il miglioramento delle condizioni di
lavoro e l’innalzamento dei salari, è stato possibile grazie alla formazione
progressiva di capitale, le stesse lotte operaie sono state fattori per
l’espansione capitalista. A somiglianza della concorrenza, esse hanno
accelerato l’accumulazione del capitale e, quindi, il ritmo della “civiltà” del
capitale. Tutto ciò che gli operai hanno guadagnato, è stato controbilanciato
da un accresciuto sfruttamento, che a sua volta consentiva una ancor più rapida
espansione. La stessa lotta di classe dei lavoratori finiva per servire gli
interessi non sicuramente dei singoli capitalisti, ma del capitale stesso. Più
gli operai hanno guadagnato, più il capitale si è arricchito. Ogni aumento
della “parte operaia” contribuiva a ingrandire lo scarto che separa i salari
dai profitti. Abbiamo assistito in questi decenni ad una apparente crescita
progressiva, che nascondeva in realtà un suo indebolimento continuo in rapporto
allo sviluppo del capitale. Il rapporto di integrazione del capitale è stato
effettivo, ma relativo ad una determinata fase, oggi assistiamo a fenomeni di
de-integrazione, che liberano in via potenziale il proletariato dai meccanismi
dell’economia capitalista ponendolo su un terreno radicale. De integrazione che
si riverbera anche nelle forme della Politica, nel piano della rappresentanza,
senza cadere in facili semplificazioni è indubbio che vi siano sempre più
porzioni sociali proletarie che sentono solo i denti del capitale…
Ma questa dinamica è solamente accennata
oggi, e non vi è ancora quel passaggio da quantitativo in qualitativo. Tuttavia
già il solo apparire di questa dinamica offre a tutti i pro-rivoluzionari la
possibilità di individuare l’emersione del nuovo rispetto al vecchio. Dove la
stessa rivoluzione torna ad essere una ipotesi, lontana ma non impossibile
visto che si ridefiniscono i diversi insiemi sociali e appare sempre più
stantio l’attuale modo di produzione.
6
La mediocrità dell’uomo capitalista, e
quindi del rivoluzionario nelle condizioni non-rivoluzionarie, diveniva
dolorosamente evidente nelle piccole/grandi organizzazioni. Sempre più persone,
partendo dalla premessa che le ‘condizioni oggettive’ sono mature per la
rivoluzione, spiegano la sua assenza con ‘fattori soggettivi’ quali la carenza
di coscienza di classe e la mancanza di comprensione e di carattere da parte
dei proletari. Queste carenze stesse necessitano a loro volta di essere
spiegate mediante ‘condizioni oggettive’, perché tale inadeguatezza del
proletariato è senza dubbio un prodotto della sua particolare posizione
all’interno delle relazioni sociali del capitalismo. La necessità di limitare
l’attività ad un intervento didascalico diviene virtù: sviluppare la coscienza
di classe degli operai viene considerato come il più essenziale dei compiti
rivoluzionari. In questo senso la cosiddetta propaganda del fatto, la pratica
del terrore rivoluzionario parte dallo stesso meccanismo, anche se ovviamente
vi è un coinvolgimento meno mediato di quello verbale o scritto.
Chi invece decide di immergersi
nell’immediatismo, abbandonando di fatto ogni velleità rivoluzionaria, se da un
certo punto di vista è più onesto con il presente, di chi crede di poter
mettere assieme tutto, diventa però semplicemente uno dei tanti alfieri del
capitale (non di singoli capitalisti) infittendo consapevolmente o
inconsapevolmente il vecchio (2). E’ per questo che la sinistra storica (riformista o antagonista che fosse) va
combattuta, non perché ha tradito ma perché è essa stessa elemento del capitale.
In mancanza di spinte de-integrative da
parte del capitale, la possibilità e il senso dei pro-rivoluzionari è
unicamente legato al passato o al futuro, o nella commistione di questi due
momenti. L’imminenza del presente è utilizzata unicamente come forza potenziale
per il futuro. In questo senso il definire via via il contenuto delle lotte e
la dinamica del capitale, ci permette di capire se esiste una tendenza
particolare, e dove il nuovo appare o persiste il vecchio. E’ per questo motivo
che è utile l’inchiesta, legata all’esperienza proletaria, e la ricerca teorica,
non tanto per individuare porzioni speciali di proletari o sapere quando appare
il momento x.
Non esistono momenti stabiliti per la
rivoluzione, anche quando la si ritiene inevitabile non si può stabilire quale
sia il suo preciso momento di inizio. Se i fattori della casualità e della
direzione sono innegabili per il processo rivoluzionario è necessario tuttavia
riconoscerne i limiti e le variabili del loro ruolo nel processo storico.
Il contributo che possiamo dare è quello di
partecipare alla generalizzazione di nuovi rapporti sociali, aspetto che
riverse problematiche pratiche e teoriche. Dobbiamo comunque saper relativizzare
l’apporto dei pro-rivoluzionari, di noi stessi, proprio perché la rivoluzione
rivoluziona, rovesciando tutti i paradigmi del vecchio, in questo senso
l’innamorarsi delle forme è stupido e spesso è legato ad una difesa del
vecchio(3).
Un rischio che si corre è quello pur
animati da buone intenzioni… di inibire lo sviluppo di nuovi rapporti sociali
facendosi riconoscere come direzione specializzata. Questo rischio esiste anche
se i pro-rivoluzionari si dichiarano contrari da un punto di vista teorico ad
imporsi deliberatamente come direzione del proletariato rivoluzionario. Ma
pensiamo che la soluzione non stia nel rifiuto di ogni tipo di intervento (già
la riflessione teorica, l’inchiesta, o il parlare ad un gruppo di lavoratori o
in una assemblea è una forma di intervento) ma nel ricercare la comprensione
dell’obbiettivo reale della lotta, nella continua ricerca dell’individuazione
del nuovo che si scontra con il vecchio, nella capacità di vedere i limiti del
movimento del capitale, che è poi scoprire le possibilità del movimento
comunista.
Riteniamo utile che tutti i
pro-rivoluzionari si connettano l’uno con l’altro, si diano forme organizzative
ma questo serve prima di tutto a loro, anche se spesso viene presentato come
necessario sacrificio…, per sopravvivere al presente, per migliorare la propria
capacità critica, dove la bontà del loro agire non è tuttavia misurabile
secondo uno schema capitalistico di efficacia. Siccome i
proletari (ma possiamo tranquillamente parlare di esseri umani) non sviluppano
tutti lo stesso grado di consapevolezza, ci saranno sempre gruppi che cercano
di intervenire nel corso della rivoluzione, non solo spinti dalle circostanze,
ma anche perché la loro consapevolezza è più avanzata. Ma il senso del loro
agire del loro rivoluzionarsi va messo in relazione alla loro capacità di
generalizzare i nuovi rapporti sociali e non riprodurre i vecchi rapporti
sociali capitalisti e solo partendo da queste premesse che si può analizzare
l’efficacia e la necessita di un lavoro organizzato tra pro-rivoluzionari.
7
Non esistono quindi tappe, ne periodi di
transizione, all’interno di un processo rivoluzionario (meccanismo proprio
dello schema del capitale), ma la contrapposizione tra vecchi e nuovi rapporti
sociali che si traducono se vi è una maggiore contrapposizione in vecchi e
nuovi rapporti di produzione dove è l’elemento quantitativo che produce la
qualità e non viceversa.
Ci
sono situazioni in cui si può esplicare un’attività rivoluzionaria e altre in
cui questo è impossibile. Le une e le altre dipendono dai rapporti di forza che
si stabiliscono in un dato momento e questi sono a loro volta condizionati
dalla situazione socio-economica. Quindi è necessario individuare i limiti
intrinsechi nel modello di produzione capitalista. E’ solo nel collasso del
vecchio che può emergere il nuovo, non in uno scontro alla pari, dove il
vecchio ha sempre più strumenti e armi in mano (non solo metaforicamente). Uno
sciopero, una lotta a meno che non si
trasformi in una guerra civile ed in una lotta direttamente contro la Politica
(lo Stato) e la stessa economia politica (il modello di produzione capitalista),
presto o tardi esso è destinato a finire non appena i lavoratori conseguono o
no le loro rivendicazioni. La sinistra storica aspettava, naturalmente, che le
situazioni critiche causate da tali scioperi e lotte, e con esse le reazioni da
parte del capitale e del suo Stato, avrebbero condotto al crescente riconoscimento
dell’incolmabile antagonismo tra lavoratori e capitale, così da rendere i
lavoratori sempre più sensibili all’idea della rivoluzione. Questa non era un’assunzione
irragionevole, ma non è stata confermata dal corso degli eventi che si sono
verificati. Senza dubbio, il subbuglio procurato da uno sciopero porta con se
un’acuita consapevolezza del vero significato di una società di classe e della
sua natura sfruttatrice, ma questo, di per sé, non cambia la realtà delle
cose.. La situazione eccezionale, producendo anche nuovi rapporti sociali,
degenera di nuovo nella routine della vita quotidiana e dei suoi bisogni
immediati, riproducendo i vecchi rapporti sociali capitalisti; la coscienza di
classe che si era manifestata, si trasforma di nuovo in apatia e in una
sottomissione allo stato delle cose presenti.
E’ anche per questo che il rapporto tra
teoria e prassi non è diretto. Quando esiste una situazione oggettivamente
rivoluzionaria, un’azione rivoluzionaria è possibile. Una situazione nasce
dalle contraddizioni dello sviluppo capitalista, dall’inevitabilità della
crisi, dunque è un fenomeno che attraversa la storia del capitalismo e in essa
si sviluppa, in questo senso la teoria rivoluzionaria ha senso solo in rapporto
alla crisi. La teoria esiste anche quando è impossibile metterla in pratica. E’
in anticipo sulla prassi rivoluzionaria futura e nel frattempo trova la sua
verifica nello sviluppo effettivo del capitale e nell’intensificarsi dei
meccanismi di de-integrazione della classe, che a quello è legata. La teoria
rivoluzionaria ha per oggetto l’abolizione del capitale e non può trovare che in
quest’ultima la sua piena conferma. Non risponde ai problemi particolari che
incontra in un dato momento la prassi rivoluzionaria, poiché le circostanze
cambiano continuamente e portano a situazioni imprevedibili. La teoria può
quindi occuparsi solo della probabilità delle situazioni rivoluzionarie future
e non delle misure particolari che richiede una determinata situazione
rivoluzionaria. Tali misure sono dettate dalla situazione rivoluzionaria che
sorge spontaneamente, si può dire che solo l’azione può dare alla teoria la
forma che le permette di corrispondere alla prassi. La ricerca dei mezzi e dei
modi per superare il capitalismo, per arrivare all’autodeterminazione di quelli
che sono esclusi dal potere, per mettere fine alla concorrenza, allo sfruttamento,
per sviluppare una comunità che non contrapponga gli individui alla società,
saranno il risultato di lotte descritte come eventi spontanei verificatesi.
La spontaneità è un termine oggi che
testimonia la nostra incapacità di trattare i fenomeni sociali del capitalismo
in modo scientifico ed empirico, ma è al tempo stesso la necessaria separazione
dalle attività che favoriscono la società predominante. Il che contribuisce ad
una acutizzazione delle facoltà critiche e ad una dissociazione dall’attivismo
futile e dalla organizzazioni senza avvenire. La spontaneità è legata alla
teoria del crollo, che non è un processo automatico, così come la stessa
spontaneità non proviene da qualche ragione mistica o ideologica, ma è dentro
la stessa dinamica dell’accumulazione che produce un ribaltamento della
quantità in qualità. E’ la necessità che produce la passione comunista. La
de-integrazione prodotta dai limiti dell’accumulazione capitalista, produce
necessità, che possono essere soddisfatte solo al di fuori del capitale, e
quindi al di fuori di tutte le strutture e le dinamiche da esso prodotte.
La fine del capitalismo con una società basata sulle necessità
dell’umanità non viene quindi dalla definizione astratta di tale società o da
appelli alla giustizia, all’umanità alla fraternità. Il comunismo sarà o non
sarà, a seconda che si trovi o non contenuta l’azione reale del proletariato,
che non è animato dal desiderio di trasformare la società, ma dalla necessità
di difendersi dallo sfruttamento, creato dai limiti stessi del capitale. E’ tuttavia
nella dinamica della lotta attraverso i nuovi rapporti sociali che si scopre la
natura del capitale, e i metodi di attacco e di difesa. In tal modo, si forma
progressivamente la base reale della società comunista, fondata
sull’appropriazione da parte del proletariato delle condizioni di vita sociale.
Per rendere possibile una tale rivoluzione occorre che i nuovi rapporti sociali
persistano, almeno allo stato embrionale, al capovolgimento dei rapporti
esistenti, resi sempre più precari dai processi di crisi. Il proletariato non
ha nulla a che vedere con chi crede di inculcargli la coscienza di classe, sono
le condizioni dell’esistenza che lo preparano al comunismo.
alcuni compagni di Connessioni per la lotta di classe
connessionic@yahoo.it
Estate 2012
1) Rispetto all’analisi e ai limiti dello stesso Marx ci sembra
opportuno riportare questo passo, scritto da Paul Mattick nel 1939: “Marx
elaboro le sue teorie durante un periodo rivoluzionario. Egli fu allora il più
avanzato tra i rivoluzionari borghesi e anche il più vicino al proletariato. Ma
la sconfitta della rivoluzione borghese in Germania, e il suo successivo
trionfo nel contesto della contro-rivoluzione, dovevano convincere Marx che la
classe operaia costituiva la sola classe rivoluzionaria del mondo moderno. Ed è
su questa base che egli concepì la teoria socio-economica della rivoluzione
proletaria. Sottovalutando, come molti suoi contemporanei, la forza e la
capacità di adattamento del capitalismo, egli ebbe torto nel dichiarare
prossima la fine della società borghese. Marx si trovava di fronte a questa
alternativa: o porsi al di fuori del corso reale degli eventi, e aggrapparsi
quindi a idee radicali ma inattuabili, o partecipare nella situazione storica
del momento alle lotte reali, pur riservando a –tempi migliori- l’applicazione
delle teorie rivoluzionarie. Quest’ultima possibilità fu ben presto
razionalizzata con la formula del -giusto equilibrio tra la teoria e la
prassi-, allo stesso tempo, la disfatta o la vittoria del proletariato tornò a
diventare una semplice questione di –buona- o di –cattiva- tattica, di
organizzazione adatta o non ai suoi compiti e di dirigenti capaci o incapaci.
Se l’elemento giacobino, inerente al movimento a cui Marx volente o nolente
legò il suo nome, ebbe un tale sviluppo, ciò si deve al primitivo legame di Marx
con la rivoluzione borghese, che alla prassi non rivoluzionaria del movimento
stesso, attribuibile al carattere non rivoluzionario dell’epoca”, Kautsky da
Marx a Hitler, ora ripubblicato sul sito di Connessioni: http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2012/08/kautsky-da-marx-hitler-pmattick.html
2) Henri Simon, Il nuovo
movimento: http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2011/12/il-nuovo-movimento-hsimon.html
“la lotta contro il dominio capitalista, che nelle sue varie forme moderne e
diverse si verifica in tutti i paesi del mondo, presenta nuove tendenze […] La
caratteristica comune ed essenziale di queste tendenze è la gestione da parte
di quelli stessi che lottano della totalità dei loro bisogni in tutte le
circostanze della loro vita, nel campo dell’azione e del pensiero. I segni d’una
potenziale quanto radicale trasformazione dei rapporti sociali devono essere
visti nello sconvolgersi stesso del capitalismo, nelle sue crisi e nei suoi
tentativi di adattarsi. Questi segni possono erompere in esplosioni isolate
rapidamente distrutte dagli interessi dominanti, altrimenti possono
affievolirsi ed essere assorbiti con lenti progressi e riforme. Gli effetti di
quanto stabilito sopra si possono più o meno rintracciare in tutte le aree dell’attività
umana, in tutti i paesi, a livello d’individui ed organizzazioni in cui sono
coinvolti. Essenziale è la lotta nel classico luogo dello sfruttamento umano da
parte del capitale, impresa industriale o commerciale, ma l’espressione della
nuova tendenza può essere rintracciata in tutte le aree di vita e prende forme
simili. Conflitti si diffondono in tutti i settori della vita sociale mostrando
che l’autonomia non può essere limitata ma conquisterà tutte le cose.” La
contrapposizione che dentro la lotta di classe si crea tra nuovo e vecchio, tra
il movimento comunista e il movimento del capitale. La dicitura movimento
comunista non intende i “comunisti”, la sinistra, e neppure i rivoluzionari
ecc..., ma l’affermazione di nuovi rapporti sociali.
3) “Una parte del movimento dell’ ‘ultrasinistra’ andò un
passo al di là dell’antibolscevismo del Partito comunista dei lavoratori (KAPD)
e dei suoi aderenti all’interno della Unione generale del lavoro (AAU). Essa
riteneva che la storia dei partiti socialdemocratici e le pratiche dei partiti
bolscevichi provavano a sufficienza quanto fosse futile tentare di sostituire
dei partiti reazionari, ciò per il motivo che il partito stesso come forma di
organizzazione era divenuta inutile persino pericolosa. Il movimento si spaccò:
una parte abbandonò del tutto la forma partito, l’altra restò come
‘organizzazione economica’ del Partito comunista dei lavoratori. La prima si
avvicinò ai sindacati ed ai movimenti anarchici, senza tuttavia abbandonare la sua Weltanschauung
marxiana. L’altra si considerò l’erede di tutto quanto vi era stato di
rivoluzionario nel movimento marxista del passato. Tentò di realizzare una
Quarta Internazionale, ma riuscì solo a creare una cooperazione più stretta con
gruppi analoghi in pochi paesi europei.
La storia passò a lato di entrambi i
gruppi; essi discutevano nel vuoto. Né il Partito comunista dei lavoratori, né
la frazione antipartitica della Unione generale del lavoro superò la loro
condizione di essere sette dell’‘ultrasinistra’. I loro problemi interni
divennero del tutto artificiosi poiché, per quanto concerne l’attività pratica
non esistevano differenze effettive tra loro.
Queste organizzazioni – residui del
tentativo proletario di giocare un ruolo nelle sommosse del 1918 – tentarono di
indirizzare le loro esperienze nell’ambito di uno sviluppo che si stava
muovendo costantemente nella direzione opposta a quella in cui queste
esperienze avevano avuto origine. Solo il Partito comunista, grazie al
controllo russo, poteva realmente crescere nell’ambito di una situazione che
andava verso il fascismo. Ma rappresentando il fascismo russo, non quello
tedesco, doveva anch’esso soccombere al movimento nazista emergente il quale,
riconoscendo ed accettando le tendenze capitaliste prevalenti, ereditò infine
il vecchio movimento operaio tedesco nella sua totalità.
Dopo il 1923 il movimento dell’
‘ultrasinistra’ tedesca cessa di costituire un serio fattore politico nel
movimento operaio della Germania. Il suo ultimo tentativo di forzare la linea
di tendenza dello sviluppo nella sua direzione venne dissipato nell’effimera
azione del marzo del 1921, intrapresa sotto la guida popolare di Max Hoelz. I
suoi militanti, costretti a darsi alla clandestinità, introdussero nel
movimento pratiche cospiratorie ed espropriatorie, accelerandone così la dissoluzione. Sebbene
organizzativamente i gruppi dell’ ‘ultrasinistra’ continuassero ad esistere
fino all’inizio della dittatura di Hitler, la loro attività si restrinsero a
quelle di gruppi di discussione che tentavano di capire i propri fallimenti e
quello della rivoluzione in Germania.” Da Comunismo Anti-bolscevico in
Germania, Paul Mattick, ora in http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2012/08/la-rivoluzione-tedesca-paul-mattick.html
Questa citazione è tratta da un saggio
recentemente tradotto da Connessioni, in merito alla rivoluzione tedesca e ai
suoi limiti, scritto da uno dei principali autori del filone comunista
consiliare. E’ impressionante che ancora oggi non si sia superato un tale approccio,
e questo pensiamo perché parte di quelle contraddizioni riviva nell’oggi.
L’approccio “pessimistico” di Mattick, in realtà nasconde la comprensione degli
effetti del movimento del capitale all’interno del binomio che crea tra
integrazione e de-integrazione di classe, il solo che può permettere al nuovo
di emergere di fronte al vecchio. Ma dove persiste il vecchio, la sua tenuta,
risulta impossibile per spinte volontariste o scorciatoie superare un tale
ostacolo. In questo senso anche gran parte delle discussioni, delle scissioni,
delle liti e fratture “epocali” si potrebbero descrivere come le classiche
tempeste in un bicchiere d’acqua.
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