venerdì 24 agosto 2012

Rivoluzionare la rivoluzione


 alcuni compagni di Connessioni, estate 2012


la rivoluzione proletaria non mancherà, 
mentre cambia il mondo, 
di educare gli stupidi educatori
Paul Mattick, 1935


1

Ci sono questioni che appaiono prive di senso ai più, suscitando ilarità o sdegno, o più semplicemente vengono considerate prive di interesse.
Oggi il dichiararsi pro-rivoluzionari, se visti dentro una rappresentazione storica appare semplicemente un vezzo, una smania, un capriccio. Tuttavia quel demone non sembra addormentarsi mai, indipendentemente dalle forme in cui può apparire, prodotto dallo stesse contraddizioni insite nel movimento del capitale.


Fiumi di sangue e di inchiostro si sono spesi su questo argomento nel secolo passato, arrivando nelle porzioni più radicali a concepire ciò che era stato (la rivoluzione dei proletaria) o come tentativi falliti o come sviluppo dello stesso capitalismo.

Non ci interessa riprendere l’ormai logoro dibattito sulla sconfitta-crisi del movimento operaio, un tale dibattito fu già intrapreso e in parte risolto già negli anni 20-30 dove le componenti più radicali dell’allora movimento comunista abbandonarono la categoria del tradimento, per descrivere il processo di integrazione esercitato dal movimento del capitale sul proletariato, visto come parte dello stesso movimento del capitale. E’ singolare che queste considerazioni sia state elaborate dal filone comunista dei consigli e successivamente dalla sinistra comunista italiana, le uniche due correnti che si posero il problema di un reale bilancio dell’esperienza proletaria da loro attraversata, avendo rappresentato nel momento più acuto di rottura nel primo dopo guerra (I guerra mondiale) le componenti più radicali sotto il profilo dell’azione e della teoria. In special modo fu proprio il filone definito consiliare che pose l’accento non tanto sul tradimento del vecchio movimento operaio, ma su quello che era effettivamente stato, non per questo trascurando le insorgenze proletarie che si erano sviluppate. Spesso vi è stata una sovrapposizione tra il termine gestionismo a quello comunista dei consigli, tuttavia pensiamo, pur ritenendo storicizzata questa esperienza, che posero al centro l’effettivo contenuto del movimento comunista, inteso come rottura radicale dal movimento del capitale, e quindi anche dalle sue forme proprie (la Politica stessa, intesa come attività di separazione). Il vedere la stessa lotta di classe non solamente in termini antagonistici del capitale, ma come forma del capitale stesso (il processo di integrazione) è uno dei maggiori lasciti di questo filone, che al tempo stesso pose l’accento sulla diversa dinamica del capitale quando questa all’interno di un processo di crisi produceva de-integrazione, rendendo possibile, ma non automatico, l’apparizione del proletariato rivoluzionario.

2

Il movimento del capitale proprio perché elemento dinamico e non statico, produce al suo interno la sua negazione, che è poi il proletariato rivoluzionario stesso, inteso come la principale forza produttiva. Questa forza potenziale si libera in base alle necessità del proletariato stesso, che trova impossibile vivere all’interno dei limiti stessi del capitale. Ma cosi come il capitale è forza dinamica, resa sempre più statica dai processi di crisi, cosi la rivoluzione dei proletari è anch’essa forza dinamica, contrapponendo ai rapporti sociali capitalisti tendenzialmente sempre più statici i rapporti sociali comunisti sempre più dinamici. In questo senso si può dire che i rapporti sociali comunisti sono già il processo rivoluzionario in atto, dove rivoluzionano la rivoluzione.

Riteniamo utile utilizzare ancora la schematizzazione marxista, basata sulle classi, non viste nei suoi elementi sociologici o tecnologici, ma dentro gli stessi rapporti di produzione. Sappiamo che è una approssimazione, il mondo non si è mai diviso semplicemente in capitalisti e proletari, anzi la presunta stagione d’oro del proletariato per la sinistra ufficiale e radicale vedeva il proletariato essere una minoranza rispetto alla società nel suo complesso. Oggi mentre il proletariato si sviluppa sempre più, si legge da ogni parte della sua fine o la fine del suo ruolo… non riuscendo a vedere questa dinamica se non con gli occhi del passato: sindacati, partiti, cooperative, associazionismo, socialismo municipale, stato popolare, nazionalismo popolare, metro reddituale, tecnologico, ecc…

Si a l’incapacità, cosa che riguarda anche noi, di saper leggere le nuove dinamiche della de-integrazione realizzata dal capitale e la relativa lotta di classe, utilizzando ancora un approccio stereotipato e storicizzato. Dove un “nuova fase del capitale” presuppone una “nuova fase della lotta di classe” non tanto nel suo contenuto ultimo, il movimento del capitale (il vecchio) che si contrappone al movimento comunista (il nuovo), ma sicuramente nelle forme e nelle relative quantità. Sotto questo aspetto è lo stesso capitale che crea le condizioni per il lavoratore collettivo ma la sua attivazione non è automatica ne invariante. Il lavoratore collettivo prodotto dallo sviluppo stesso del capitalismo sempre più ramificato e totale è la forma che non trova più spazio dentro ad un modo di produzione ormai obsoleto e stagnante. Se sono esistite nel passato forme embrionali di lavoratore collettivo che ha sviluppato nuovi rapporti sociali, questi erano comunque contraddistinti dalla loro esigua quantità sia in termini temporali che spaziali.

3

Secondo Marx è produttivo solo il lavoro che produce capitale, mentre è improduttivo il lavoro che viene scambiato direttamente con un profitto o un salario. "Il risultato del processo di produzione capitalistico", egli sostiene, "non è quindi né un semplice prodotto (valore d'uso) né una merce, cioè un valore d'uso avente un valore di scambio determinato. Risultato e prodotto di esso è la creazione di plusvalore per il capitale e quindi l'effettiva conversione di denaro o di merci in capitale, cosa elle anteriormente al processo di produzione essi non erano se non a livello di intenzione di destinazione.
Il processo di produzione assorbe più lavoro di quanto sia pagato e tale assorbimento, questa appropriazione del lavoro non pagato che avviene nel processo di produzione capitalistica ne costituisce lo scopo immediato. Infatti ciò che il capitale (e quindi il capitalista in quanto tale) vuole produrre, non è nè un valore d'uso immediato ai fini di autoconsumo, ne una merce destinata a essere trasformata prima in denaro e poi in valore d'uso. Esso ha come scopo l'arricchimento, la valorizzazione del capitale, il suo accrescimento, e quindi la conservazione dell'antico valore e la creazione del plusvalore. E questo prodotto specifico del processo di produzione capitalistico viene ottenuto proprio grazie allo scambio con il lavoro che, per questa ragione, è detto produttivo.
Infatti all'interno del sistema capitalistico, processo di produzione e processo di circolazione costituiscono una totalità. Bisogna quindi distinguere la creazione del plusvalore dalla sua distribuzione, poiché la distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo è attenuata dal fatto che sia nella sfera della produzione sia in quella della circolazione sono pagati dei salari e realizzati dei profitti. La divisione del lavoro, considerata come un prodotto storico dello sviluppo capitalistico e soggetta come tale a continui mutamenti, fa sì che il capitale si suddivida tra i diversi settori dell'economia di mercato e, quindi, che i capitali impiegati improduttivamente ricevano una parte dal plusvalore sociale globale. Analogamente al capitale creatore di plusvalore, il capitale improduttivo assume la forma d'imprese che forniscono un profitto medio al capitale che vi e investito. L'unità dei due tipi di lavoro si può cogliere anche al di fuori del processo capitalistico di produzione considerato nel suo insieme. Se si analizzano le imprese che generano plusvalore, si assiste ugualmente a una divisione del lavoro, in funzione della quale una parte della manodopera crea direttamente del plusvalore, mentre l'altra lo crea indirettamente.
Potremmo a questo punto suddividere il lavoro in 3 macro aree:
-Il lavoro direttamente produttivo di plusvalore sotto forma di merci fisiche e di informazioni produttive (operai industriali, tecnici, salariati agricoli, ecc..)
-Il lavoro indirettamente produttivo che si trova nella sfera della circolazione del valore (amministrazione, servizi sociali, ecc…)
-Il lavoro di controllo sulla forza lavoro (poliziotti, preti, capi, ideologi, politici, ecc…) che è da considerarsi parte indissolubile del capitale nella misura in cui è interno alle sue necessità riproduttive.
Ma quando Marx parla dello sviluppo del proletariato rivoluzionario, lo fa sulla base non della distinzione tra i tipi di lavoro, ma nei cambiamenti che intervengono nei rapporti di classe mentre continua l'accumulazione del capitale e aumenta quindi la divisione della società in due grandi classi con una progressiva proletarizzazione delle masse.
In questo senso la stessa categoria di ceti medi non è corretta perché rappresenta semplicemente un periodo reddituale che investe fasce del proletariato o della stessa borghesia. Non è un caso che il termine classe media in paesi come gli USA abbia avuto una caratterizzazione più ideologico-sociale che realmente legata a quello che sono in realtà i rapporti di produzione capitalista.

Quando utilizziamo il termine lavoratore collettivo, intendiamo una massificazione del proletariato a classe universale, questa ovviamente non appare come d’incanto, ma è sicuramente una tendenza insita nello stesso movimento del capitale. La persistenza di svariate stratificazioni sociali indica solamente la capacità del movimento del capitale, di esercitare una concorrenza al suo interno, ma tale da non creare una sua auto-dissoluzione. Il processo integrativo del capitale aveva dato vita ad un “ceto medio” che da un punto di vista ideologico rendeva superfluo il solo parlare della rivoluzione, della sua necessità. Le crepe di quel processo attraverso la de-integrazione porta con se una polarizzazione che si specchia nella suddivisione teorica marxiana tra proletariato e borghesia.

4

Ma il proletariato non è di per sé, per essenza la classe rivoluzionaria insignita del compito di abbattere il capitalismo. Solo in un processo di formazione, contradditorio e per niente lineare, il proletariato prodotto dal capitalismo e produttore di questo sistema economico ha, in determinati momenti storici, la possibilità di assumere un ruolo rivoluzionario, dove esiste sempre una alternativa tra comunismo o civiltà presente, affermazione di una nuova umanità e quindi nuovi rapporti sociali che diventano nuovi rapporti di produzione o sfruttamento, oppressione e miseria, determinata dal processo storico, e cioè dal processo di accumulazione capitalista. Ma questo processo non è illimitato e la crisi è dimostrazione di questi limiti che permettono, ampliando le contraddizioni e i processi di de-integrazione di classe, lo sviluppo e l’emersione dei movimenti rivoluzionari che vedono nel lavoratore collettivo il soggetto della trasformazione.

E’ terribile per la psiche dei militanti, ma il proletariato o è rivoluzionario o non è nulla. Il proletariato rivoluzionario non è solo attività diretta, ma è la critica dell’economia politica che si materializza nello sviluppo di nuovi rapporti sociali e quindi di nuova produzione sociale. Il venir meno di questo processo, nato dai limiti stessi del capitale, presuppone la fine del proletariato in quanto elemento rivoluzionario, ma non la sua inattività, anzi, sia i regimi autoritari così come quelli democratici sono sempre alla ricerca di una nuova comunità d’intenti, di una “vera” partecipazione. La differenza sostanziale è che mentre il proletariato rivoluzionario necessariamente pone il problema di una nuova produzione sociale, rompendo i vincoli del capitale, e quindi pone nella sua stessa dinamica di lotta l’affermazione in positivo di una nuova umanità negando la sua stessa entità, l’attività del capitale è fondata su una visione particolare, dove esiste una contrapposizione di interessi di comunità e di classe e su questi sviluppa i suoi processi di separazione e affermazione, i richiami quindi all’unità nazionale e sociale, alla sacralità del lavoro (salariato), alla morale umanitaria, alla democrazia o all’autorità ecc.. sono tentativi di “attivare” il proletariato da parte del capitale. Più il capitale agisce effettivamente nei suoi aspetti particolaristici più si presenta in modo universalistico. La lotta di classe rivoluzionaria rompe questo meccanismo, l’azione proletaria ha il potere di superare queste gabbie, ed è quello che è avvenuto se si analizzano le forme di insorgenza proletaria lette non con gli occhi dell’ideologia di sinistra (o di destra) ma come mera forza sociale che nel suo effettivo manifestarsi rompe con l’economia politica e la politica stessa. Questo è forse il lascito più grande che ci ha consegnato il 900, dove i movimenti proletari autonomi (consigli, comitati di lotta, ecc..) anche se in modo limitato nel tempo hanno permesso e sono stati manifestazione di questa insorgenza.

5

Dal nostro punto di vista la lotta di classe non è una questione tattica (1). Non consideriamo la lotta di classe rivoluzionaria come un fenomeno di ogni momento. La concezione della lotta di classe rivoluzionaria permanente è paragonabile a chi crede alla concezione borghese di progresso permanente. A parte il feticismo della merce, qualunque sia il significato che le leggi di mercato possano assumere rispetto ad arricchimenti o perdite particolari e per quanto possano essere manovrate da questo o quell’altro gruppo di interesse, in nessuna circostanza possono essere utilizzate a vantaggio della classe proletaria considerata nel suo complesso. Non è il mercato che controlla gli individui e determina le relazioni sociali prevalenti ma piuttosto il fatto che nella società un gruppo separato possiede o controlla i mezzi di produzione e gli strumenti di repressione. Per sconfiggere il capitalismo sono necessarie azioni esterne alle relazioni di mercato tra lavoro e capitale, azioni che aboliscono entrambi, il mercato e le relazioni di classe. Limitando le azioni all’interno del perimetro capitalistico si sviluppa solo capitale, indipendentemente dal grado di lotta che si esprime, ma questa non è dovuta a una mancanza di chiarezza soggettiva ma nella tenuta del vecchio rispetto al nuovo. Il porre l’accento sulla auto-attività dei proletari impegnati nella lotta non riveste quindi una problematica legata alle forme ma al contenuto stesso del processo rivoluzionario.
Già Marx sottolineava nel Capitale: “il movimento ascendente impresso al prezzo del lavoro dall’accumulazione del capitale dimostra che la catena d’oro a cui il capitalista tiene legato il salariato in modo indissolubile, e che costui continua a ribadire, è già abbastanza lunga da permettere un allentamento della tensione”.

Il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’innalzamento dei salari, è stato possibile grazie alla formazione progressiva di capitale, le stesse lotte operaie sono state fattori per l’espansione capitalista. A somiglianza della concorrenza, esse hanno accelerato l’accumulazione del capitale e, quindi, il ritmo della “civiltà” del capitale. Tutto ciò che gli operai hanno guadagnato, è stato controbilanciato da un accresciuto sfruttamento, che a sua volta consentiva una ancor più rapida espansione. La stessa lotta di classe dei lavoratori finiva per servire gli interessi non sicuramente dei singoli capitalisti, ma del capitale stesso. Più gli operai hanno guadagnato, più il capitale si è arricchito. Ogni aumento della “parte operaia” contribuiva a ingrandire lo scarto che separa i salari dai profitti. Abbiamo assistito in questi decenni ad una apparente crescita progressiva, che nascondeva in realtà un suo indebolimento continuo in rapporto allo sviluppo del capitale. Il rapporto di integrazione del capitale è stato effettivo, ma relativo ad una determinata fase, oggi assistiamo a fenomeni di de-integrazione, che liberano in via potenziale il proletariato dai meccanismi dell’economia capitalista ponendolo su un terreno radicale. De integrazione che si riverbera anche nelle forme della Politica, nel piano della rappresentanza, senza cadere in facili semplificazioni è indubbio che vi siano sempre più porzioni sociali proletarie che sentono solo i denti del capitale…
Ma questa dinamica è solamente accennata oggi, e non vi è ancora quel passaggio da quantitativo in qualitativo. Tuttavia già il solo apparire di questa dinamica offre a tutti i pro-rivoluzionari la possibilità di individuare l’emersione del nuovo rispetto al vecchio. Dove la stessa rivoluzione torna ad essere una ipotesi, lontana ma non impossibile visto che si ridefiniscono i diversi insiemi sociali e appare sempre più stantio l’attuale modo di produzione.

6

La mediocrità dell’uomo capitalista, e quindi del rivoluzionario nelle condizioni non-rivoluzionarie, diveniva dolorosamente evidente nelle piccole/grandi organizzazioni. Sempre più persone, partendo dalla premessa che le ‘condizioni oggettive’ sono mature per la rivoluzione, spiegano la sua assenza con ‘fattori soggettivi’ quali la carenza di coscienza di classe e la mancanza di comprensione e di carattere da parte dei proletari. Queste carenze stesse necessitano a loro volta di essere spiegate mediante ‘condizioni oggettive’, perché tale inadeguatezza del proletariato è senza dubbio un prodotto della sua particolare posizione all’interno delle relazioni sociali del capitalismo. La necessità di limitare l’attività ad un intervento didascalico diviene virtù: sviluppare la coscienza di classe degli operai viene considerato come il più essenziale dei compiti rivoluzionari. In questo senso la cosiddetta propaganda del fatto, la pratica del terrore rivoluzionario parte dallo stesso meccanismo, anche se ovviamente vi è un coinvolgimento meno mediato di quello verbale o scritto.
Chi invece decide di immergersi nell’immediatismo, abbandonando di fatto ogni velleità rivoluzionaria, se da un certo punto di vista è più onesto con il presente, di chi crede di poter mettere assieme tutto, diventa però semplicemente uno dei tanti alfieri del capitale (non di singoli capitalisti) infittendo consapevolmente o inconsapevolmente il vecchio (2). E’ per questo che la sinistra storica  (riformista o antagonista che fosse) va combattuta, non perché ha tradito ma perché è essa stessa elemento del capitale.

In mancanza di spinte de-integrative da parte del capitale, la possibilità e il senso dei pro-rivoluzionari è unicamente legato al passato o al futuro, o nella commistione di questi due momenti. L’imminenza del presente è utilizzata unicamente come forza potenziale per il futuro. In questo senso il definire via via il contenuto delle lotte e la dinamica del capitale, ci permette di capire se esiste una tendenza particolare, e dove il nuovo appare o persiste il vecchio. E’ per questo motivo che è utile l’inchiesta, legata all’esperienza proletaria, e la ricerca teorica, non tanto per individuare porzioni speciali di proletari o sapere quando appare il momento x.
Non esistono momenti stabiliti per la rivoluzione, anche quando la si ritiene inevitabile non si può stabilire quale sia il suo preciso momento di inizio. Se i fattori della casualità e della direzione sono innegabili per il processo rivoluzionario è necessario tuttavia riconoscerne i limiti e le variabili del loro ruolo nel processo storico.
Il contributo che possiamo dare è quello di partecipare alla generalizzazione di nuovi rapporti sociali, aspetto che riverse problematiche pratiche e teoriche. Dobbiamo comunque saper relativizzare l’apporto dei pro-rivoluzionari, di noi stessi, proprio perché la rivoluzione rivoluziona, rovesciando tutti i paradigmi del vecchio, in questo senso l’innamorarsi delle forme è stupido e spesso è legato ad una difesa del vecchio(3).
Un rischio che si corre è quello pur animati da buone intenzioni… di inibire lo sviluppo di nuovi rapporti sociali facendosi riconoscere come direzione specializzata. Questo rischio esiste anche se i pro-rivoluzionari si dichiarano contrari da un punto di vista teorico ad imporsi deliberatamente come direzione del proletariato rivoluzionario. Ma pensiamo che la soluzione non stia nel rifiuto di ogni tipo di intervento (già la riflessione teorica, l’inchiesta, o il parlare ad un gruppo di lavoratori o in una assemblea è una forma di intervento) ma nel ricercare la comprensione dell’obbiettivo reale della lotta, nella continua ricerca dell’individuazione del nuovo che si scontra con il vecchio, nella capacità di vedere i limiti del movimento del capitale, che è poi scoprire le possibilità del movimento comunista.

Riteniamo utile che tutti i pro-rivoluzionari si connettano l’uno con l’altro, si diano forme organizzative ma questo serve prima di tutto a loro, anche se spesso viene presentato come necessario sacrificio…, per sopravvivere al presente, per migliorare la propria capacità critica, dove la bontà del loro agire non è tuttavia misurabile secondo uno schema capitalistico di efficacia. Siccome i proletari (ma possiamo tranquillamente parlare di esseri umani) non sviluppano tutti lo stesso grado di consapevolezza, ci saranno sempre gruppi che cercano di intervenire nel corso della rivoluzione, non solo spinti dalle circostanze, ma anche perché la loro consapevolezza è più avanzata. Ma il senso del loro agire del loro rivoluzionarsi va messo in relazione alla loro capacità di generalizzare i nuovi rapporti sociali e non riprodurre i vecchi rapporti sociali capitalisti e solo partendo da queste premesse che si può analizzare l’efficacia e la necessita di un lavoro organizzato tra pro-rivoluzionari.

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Non esistono quindi tappe, ne periodi di transizione, all’interno di un processo rivoluzionario (meccanismo proprio dello schema del capitale), ma la contrapposizione tra vecchi e nuovi rapporti sociali che si traducono se vi è una maggiore contrapposizione in vecchi e nuovi rapporti di produzione dove è l’elemento quantitativo che produce la qualità e non viceversa.

Ci sono situazioni in cui si può esplicare un’attività rivoluzionaria e altre in cui questo è impossibile. Le une e le altre dipendono dai rapporti di forza che si stabiliscono in un dato momento e questi sono a loro volta condizionati dalla situazione socio-economica. Quindi è necessario individuare i limiti intrinsechi nel modello di produzione capitalista. E’ solo nel collasso del vecchio che può emergere il nuovo, non in uno scontro alla pari, dove il vecchio ha sempre più strumenti e armi in mano (non solo metaforicamente). Uno sciopero, una lotta a meno che non si trasformi in una guerra civile ed in una lotta direttamente contro la Politica (lo Stato) e la stessa economia politica (il modello di produzione capitalista), presto o tardi esso è destinato a finire non appena i lavoratori conseguono o no le loro rivendicazioni. La sinistra storica aspettava, naturalmente, che le situazioni critiche causate da tali scioperi e lotte, e con esse le reazioni da parte del capitale e del suo Stato, avrebbero condotto al crescente riconoscimento dell’incolmabile antagonismo tra lavoratori e capitale, così da rendere i lavoratori sempre più sensibili all’idea della rivoluzione. Questa non era un’assunzione irragionevole, ma non è stata confermata dal corso degli eventi che si sono verificati. Senza dubbio, il subbuglio procurato da uno sciopero porta con se un’acuita consapevolezza del vero significato di una società di classe e della sua natura sfruttatrice, ma questo, di per sé, non cambia la realtà delle cose.. La situazione eccezionale, producendo anche nuovi rapporti sociali, degenera di nuovo nella routine della vita quotidiana e dei suoi bisogni immediati, riproducendo i vecchi rapporti sociali capitalisti; la coscienza di classe che si era manifestata, si trasforma di nuovo in apatia e in una sottomissione allo stato delle cose presenti.

E’ anche per questo che il rapporto tra teoria e prassi non è diretto. Quando esiste una situazione oggettivamente rivoluzionaria, un’azione rivoluzionaria è possibile. Una situazione nasce dalle contraddizioni dello sviluppo capitalista, dall’inevitabilità della crisi, dunque è un fenomeno che attraversa la storia del capitalismo e in essa si sviluppa, in questo senso la teoria rivoluzionaria ha senso solo in rapporto alla crisi. La teoria esiste anche quando è impossibile metterla in pratica. E’ in anticipo sulla prassi rivoluzionaria futura e nel frattempo trova la sua verifica nello sviluppo effettivo del capitale e nell’intensificarsi dei meccanismi di de-integrazione della classe, che a quello è legata. La teoria rivoluzionaria ha per oggetto l’abolizione del capitale e non può trovare che in quest’ultima la sua piena conferma. Non risponde ai problemi particolari che incontra in un dato momento la prassi rivoluzionaria, poiché le circostanze cambiano continuamente e portano a situazioni imprevedibili. La teoria può quindi occuparsi solo della probabilità delle situazioni rivoluzionarie future e non delle misure particolari che richiede una determinata situazione rivoluzionaria. Tali misure sono dettate dalla situazione rivoluzionaria che sorge spontaneamente, si può dire che solo l’azione può dare alla teoria la forma che le permette di corrispondere alla prassi. La ricerca dei mezzi e dei modi per superare il capitalismo, per arrivare all’autodeterminazione di quelli che sono esclusi dal potere, per mettere fine alla concorrenza, allo sfruttamento, per sviluppare una comunità che non contrapponga gli individui alla società, saranno il risultato di lotte descritte come eventi spontanei verificatesi.
La spontaneità è un termine oggi che testimonia la nostra incapacità di trattare i fenomeni sociali del capitalismo in modo scientifico ed empirico, ma è al tempo stesso la necessaria separazione dalle attività che favoriscono la società predominante. Il che contribuisce ad una acutizzazione delle facoltà critiche e ad una dissociazione dall’attivismo futile e dalla organizzazioni senza avvenire. La spontaneità è legata alla teoria del crollo, che non è un processo automatico, così come la stessa spontaneità non proviene da qualche ragione mistica o ideologica, ma è dentro la stessa dinamica dell’accumulazione che produce un ribaltamento della quantità in qualità. E’ la necessità che produce la passione comunista. La de-integrazione prodotta dai limiti dell’accumulazione capitalista, produce necessità, che possono essere soddisfatte solo al di fuori del capitale, e quindi al di fuori di tutte le strutture e le dinamiche da esso prodotte.

La fine del capitalismo con una società basata sulle necessità dell’umanità non viene quindi dalla definizione astratta di tale società o da appelli alla giustizia, all’umanità alla fraternità. Il comunismo sarà o non sarà, a seconda che si trovi o non contenuta l’azione reale del proletariato, che non è animato dal desiderio di trasformare la società, ma dalla necessità di difendersi dallo sfruttamento, creato dai limiti stessi del capitale. E’ tuttavia nella dinamica della lotta attraverso i nuovi rapporti sociali che si scopre la natura del capitale, e i metodi di attacco e di difesa. In tal modo, si forma progressivamente la base reale della società comunista, fondata sull’appropriazione da parte del proletariato delle condizioni di vita sociale. Per rendere possibile una tale rivoluzione occorre che i nuovi rapporti sociali persistano, almeno allo stato embrionale, al capovolgimento dei rapporti esistenti, resi sempre più precari dai processi di crisi. Il proletariato non ha nulla a che vedere con chi crede di inculcargli la coscienza di classe, sono le condizioni dell’esistenza che lo preparano al comunismo.

alcuni compagni di Connessioni per la lotta di classe
connessionic@yahoo.it
Estate 2012

1) Rispetto all’analisi e ai limiti dello stesso Marx ci sembra opportuno riportare questo passo, scritto da Paul Mattick nel 1939: “Marx elaboro le sue teorie durante un periodo rivoluzionario. Egli fu allora il più avanzato tra i rivoluzionari borghesi e anche il più vicino al proletariato. Ma la sconfitta della rivoluzione borghese in Germania, e il suo successivo trionfo nel contesto della contro-rivoluzione, dovevano convincere Marx che la classe operaia costituiva la sola classe rivoluzionaria del mondo moderno. Ed è su questa base che egli concepì la teoria socio-economica della rivoluzione proletaria. Sottovalutando, come molti suoi contemporanei, la forza e la capacità di adattamento del capitalismo, egli ebbe torto nel dichiarare prossima la fine della società borghese. Marx si trovava di fronte a questa alternativa: o porsi al di fuori del corso reale degli eventi, e aggrapparsi quindi a idee radicali ma inattuabili, o partecipare nella situazione storica del momento alle lotte reali, pur riservando a –tempi migliori- l’applicazione delle teorie rivoluzionarie. Quest’ultima possibilità fu ben presto razionalizzata con la formula del -giusto equilibrio tra la teoria e la prassi-, allo stesso tempo, la disfatta o la vittoria del proletariato tornò a diventare una semplice questione di –buona- o di –cattiva- tattica, di organizzazione adatta o non ai suoi compiti e di dirigenti capaci o incapaci. Se l’elemento giacobino, inerente al movimento a cui Marx volente o nolente legò il suo nome, ebbe un tale sviluppo, ciò si deve al primitivo legame di Marx con la rivoluzione borghese, che alla prassi non rivoluzionaria del movimento stesso, attribuibile al carattere non rivoluzionario dell’epoca”, Kautsky da Marx a Hitler, ora ripubblicato sul sito di Connessioni: http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2012/08/kautsky-da-marx-hitler-pmattick.html

2) Henri Simon, Il nuovo movimento: http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2011/12/il-nuovo-movimento-hsimon.html “la lotta contro il dominio capitalista, che nelle sue varie forme moderne e diverse si verifica in tutti i paesi del mondo, presenta nuove tendenze […] La caratteristica comune ed essenziale di queste tendenze è la gestione da parte di quelli stessi che lottano della totalità dei loro bisogni in tutte le circostanze della loro vita, nel campo dell’azione e del pensiero. I segni d’una potenziale quanto radicale trasformazione dei rapporti sociali devono essere visti nello sconvolgersi stesso del capitalismo, nelle sue crisi e nei suoi tentativi di adattarsi. Questi segni possono erompere in esplosioni isolate rapidamente distrutte dagli interessi dominanti, altrimenti possono affievolirsi ed essere assorbiti con lenti progressi e riforme. Gli effetti di quanto stabilito sopra si possono più o meno rintracciare in tutte le aree dell’attività umana, in tutti i paesi, a livello d’individui ed organizzazioni in cui sono coinvolti. Essenziale è la lotta nel classico luogo dello sfruttamento umano da parte del capitale, impresa industriale o commerciale, ma l’espressione della nuova tendenza può essere rintracciata in tutte le aree di vita e prende forme simili. Conflitti si diffondono in tutti i settori della vita sociale mostrando che l’autonomia non può essere limitata ma conquisterà tutte le cose.” La contrapposizione che dentro la lotta di classe si crea tra nuovo e vecchio, tra il movimento comunista e il movimento del capitale. La dicitura movimento comunista non intende i “comunisti”, la sinistra, e neppure i rivoluzionari ecc..., ma l’affermazione di nuovi rapporti sociali.

3) “Una parte del movimento dell’ ‘ultrasinistra’ andò un passo al di là dell’antibolscevismo del Partito comunista dei lavoratori (KAPD) e dei suoi aderenti all’interno della Unione generale del lavoro (AAU). Essa riteneva che la storia dei partiti socialdemocratici e le pratiche dei partiti bolscevichi provavano a sufficienza quanto fosse futile tentare di sostituire dei partiti reazionari, ciò per il motivo che il partito stesso come forma di organizzazione era divenuta inutile persino pericolosa. Il movimento si spaccò: una parte abbandonò del tutto la forma partito, l’altra restò come ‘organizzazione economica’ del Partito comunista dei lavoratori. La prima si avvicinò ai sindacati ed ai movimenti anarchici, senza tuttavia abbandonare la sua Weltanschauung marxiana. L’altra si considerò l’erede di tutto quanto vi era stato di rivoluzionario nel movimento marxista del passato. Tentò di realizzare una Quarta Internazionale, ma riuscì solo a creare una cooperazione più stretta con gruppi analoghi in pochi paesi europei.
La storia passò a lato di entrambi i gruppi; essi discutevano nel vuoto. Né il Partito comunista dei lavoratori, né la frazione antipartitica della Unione generale del lavoro superò la loro condizione di essere sette dell’‘ultrasinistra’. I loro problemi interni divennero del tutto artificiosi poiché, per quanto concerne l’attività pratica non esistevano differenze effettive tra loro.
Queste organizzazioni – residui del tentativo proletario di giocare un ruolo nelle sommosse del 1918 – tentarono di indirizzare le loro esperienze nell’ambito di uno sviluppo che si stava muovendo costantemente nella direzione opposta a quella in cui queste esperienze avevano avuto origine. Solo il Partito comunista, grazie al controllo russo, poteva realmente crescere nell’ambito di una situazione che andava verso il fascismo. Ma rappresentando il fascismo russo, non quello tedesco, doveva anch’esso soccombere al movimento nazista emergente il quale, riconoscendo ed accettando le tendenze capitaliste prevalenti, ereditò infine il vecchio movimento operaio tedesco nella sua totalità.
Dopo il 1923 il movimento dell’ ‘ultrasinistra’ tedesca cessa di costituire un serio fattore politico nel movimento operaio della Germania. Il suo ultimo tentativo di forzare la linea di tendenza dello sviluppo nella sua direzione venne dissipato nell’effimera azione del marzo del 1921, intrapresa sotto la guida popolare di Max Hoelz. I suoi militanti, costretti a darsi alla clandestinità, introdussero nel movimento pratiche cospiratorie ed espropriatorie, accelerandone così la dissoluzione. Sebbene organizzativamente i gruppi dell’ ‘ultrasinistra’ continuassero ad esistere fino all’inizio della dittatura di Hitler, la loro attività si restrinsero a quelle di gruppi di discussione che tentavano di capire i propri fallimenti e quello della rivoluzione in Germania.” Da Comunismo Anti-bolscevico in Germania, Paul Mattick, ora in http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2012/08/la-rivoluzione-tedesca-paul-mattick.html
Questa citazione è tratta da un saggio recentemente tradotto da Connessioni, in merito alla rivoluzione tedesca e ai suoi limiti, scritto da uno dei principali autori del filone comunista consiliare. E’ impressionante che ancora oggi non si sia superato un tale approccio, e questo pensiamo perché parte di quelle contraddizioni riviva nell’oggi. L’approccio “pessimistico” di Mattick, in realtà nasconde la comprensione degli effetti del movimento del capitale all’interno del binomio che crea tra integrazione e de-integrazione di classe, il solo che può permettere al nuovo di emergere di fronte al vecchio. Ma dove persiste il vecchio, la sua tenuta, risulta impossibile per spinte volontariste o scorciatoie superare un tale ostacolo. In questo senso anche gran parte delle discussioni, delle scissioni, delle liti e fratture “epocali” si potrebbero descrivere come le classiche tempeste in un bicchiere d’acqua.


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