di Valerio Bertello
febbraio 2012
La questione della nocività sul lavoro è un punto sensibile della logica del capitalismo in quanto mette a nudo il rapporto di sfruttamento e i suoi meccanismi.Il problema può essere considerato, come tanti altri concernenti i rapporti sociali capitalistici, da diversi punti di vista, ma i principali sono tre. Quello capitalista puro, cioè il punto di vista liberista; quello riformistico, cioè del capitalismo progressista, o se si vuole, in posizione difensiva; infine quello della critica radicale, cioè dal punto di vista del comunismo, che svela la realtà sociale.
L’ideologia liberista, come di consueto, fa un uso strumentale della libertà, in cui sostiene che ognuno deve essere libero di scegliere, e che se questa libertà è garantita tutto diviene lecito. Naturalmente tale principio dipende da che cosa si intende per libertà e il liberismo formula tale concetto nei termini della libertà del capitalista, cioè essenzialmente come libertà economica, cioè quella di combinare affari senza restrizioni, o con restrizioni ridotte al minimo. Ciò significa essenzialmente libertà di sfruttare il lavoro altrui e di farsi sfruttare. Lo sfruttamento così diviene lecito purché si tratti di una libera scelta, cioè purché il rapporto sia sancito da un contratto liberamente sottoscritto.
Nel caso in oggetto è la nocività che diviene qualcosa di contrattabile, cioè monetizzabile, e diviene accettabile che una delle parti ci guadagni mentre l’altra vende non solo la sua forza lavoro, che però viene reintegrata tramite il salario (ma non del tutto, il lavoro logora, il lavoratore invecchia), ma anche la sua integrità fisica. Ma in ciò si dimentica che se qualcuno vende la propria attività vitale e integrità fisica lo fa perché è in condizioni di bisogno, ed è questa circostanza quello su cui il capitalismo fa leva e su cui ci guadagna.
Il capitalismo riformista è disposto a riconoscere in parte ciò, almeno per quanto riguarda la nocività, anche se solo in termini astrattamente umanitari piuttosto che concretamente di equità economica. Cioè non viene riconosciuto il rapporto di sfruttamento e quello di dominio che ne sta alla base ma solo l’astratta immoralità della condizione di lavoro del salariato, solo il fatto che ne venga compromessa la funzionalità fisica. Il capitalista viene riconosciuto responsabile delle condizioni di lavoro in rapporto alla salute del lavoratore, non dello sfruttamento. Di qui il cospicuo sviluppo di una vasta legislazione del lavoro, in particolare di minuziose normative sulla sicurezza, sulla nocività dell’ambiente di lavoro, i cui costi sono posti a carico dell’imprenditore.
Naturalmente ciò non è frutto degli scrupoli morali del capitalista ma delle lotte dei lavoratori, che almeno su questo piano hanno obbligato il capitale a prendere in considerazione il problema, anche se questo incide sui profitti. A riprova di ciò vi è il quotidiano braccio di ferro tra lavoratori e direzione dell’impresa perché le norme trovino attuazione completa. Il processo Eternit, come innumerevoli casi simili, è un episodio di questa lotta. In esso la novità è costituita dal fatto che la proprietà, cioè gli azionisti, per la prima volta sono stati riconosciuti responsabili della mancata osservanza delle leggi vigenti, condannandoli per disastro ambientale doloso. Cioè gli è stato riconosciuto il dolo, quindi la volontà di danneggiare la controparte a scopo di trarne vantaggio, mentre in precedenza il reato attribuito in questi casi alla proprietà era di carattere colposo, cioè derivante da ignoranza o incuria, quindi un reato involontario e non cosciente. Perciò d’ora in poi non sarà più possibile per la proprietà scaricare la responsabilità sui dirigenti, come era avvenuto finora. Questo è un passo avanti, ma non coglie ancora la sostanza della questione, che è quella dello sfruttamento, contenuto che può essere oggetto solo di una critica radicale, cioè materialista. Essa si emerge portando alle estreme conseguenze la posizione riformista.
Pur lasciando da parte il lavoro puro e semplice, che rimane l’oggetto principale dello sfruttamento, rimane il fatto che il lavoro speso dal salariato nella giornata lavorativa non viene mai totalmente reintegrato dal salario. Cioè il salario, tradotto in alimenti, comodità, cure, ecc., non reintegra completamente le condizioni fisiche del lavoratore, né mai potrebbe compiere questo miracolo. Considerando i fattori della nocività in ordine di gravità, vi è il logorio fisico, accentuato nei lavori usuranti, peraltro riconosciuti come tali; vi sono le malattie professionali; vi è il pericolo di incidenti sul lavoro. Queste eventi negativi sono riconosciuti come tali dal capitale riformista e da questi in parte monetizzati, cioè risarciti, e in parte ridotti il più possibile. Ma in realtà la questione si pone in termini sociali. Il capitale tenta di eliminare o monetizzare tali aspetti del lavoro, ma è evidente che ciò non risolve il problema: i rischi in generale possono essere ridotti ma quasi mai azzerati; e il risarcimento non è in realtà quantificabile poiché l’integrità fisica è un bene non valutabile in termini di denaro, anche se in realtà il suo valore viene computato in termini di reddito perduto. Quindi resta sempre il fatto che nel capitalismo vi è sempre qualcuno che sfrutta elementi della vita umana che devono rimanere esclusi dalla contrattazione individuale o di categoria. La sostanza della questione è che si tratta qui di caratteri universali dell’esistenza umana, cioè del fatto che il rapporto dell’uomo con la natura è fondamentalmente un rapporto in cui gli individui costituiti in società trasformano la natura in forma adatta al consumo individuale e collettivo. Cioè si tratta di lavoro e questa attività, se pur arreca benefici, è intrinsecamente logorante e pericolosa. Questi caratteri negativi del lavoro possono essere ridotti con la divisione del lavoro, il macchinismo, ecc., ma non eliminati. Cioè si possono adottare tutte le misure del caso, ma un incidente è sempre possibile, il logoramento inevitabile, le malattie sempre in agguato. Però si può e si deve eliminare non solo il fatto che alcuni possano evitare di subire tali rischi imponendoli ad altri, ma che ne facciano uno strumento di guadagno. Questo imperativo pone la necessità di socializzare realmente il lavoro, al fine di socializzarne non solo gli aspetti positivi, cioè la produzione di ricchezza materiale e intellettuale, ma anche quelli negativi, inseparabili dai primi. Va da sé che tale esigenza pone immediatamente quella di socializzare il carattere negativo più generale del lavoro: la sua inevitabilità come condizione universale di sopravvivenza. Negatività anche questa che può essere ridotta ma non eliminata.
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