lunedì 6 febbraio 2012

PROLETARIATO E ORGANIZZAZIONE


PROLETARIATO E ORGANIZZAZIONE
di  Valerio Bertello, gennaio 2012

Un discorso sull’organizzazione deve iniziare da un dato di fatto: il movimento rivoluzionario sta attraversando una fase di ricostruzione, fase che segue la chiusura di un ciclo, quello delle lotte degli anni 70, che si è concluso, come è necessario, quando le forze in campo hanno raggiunto i propri limiti storici. Ciò non significa che il ciclo sia terminato con una sconfitta. E’ vero piuttosto che tali lotte hanno mutato i rapporti tra proletariato e borghesia, creando così un nuovo contesto con il quale le classi dovranno misurarsi. Quale sia il contesto è un discorso che va oltre i limiti della presente nota. Qui si vuole solo rimarcare che se si vuole affrontare la nuova fase senza un inutile fardello di falsi problemi è necessario liberarsi della sindrome della sconfitta.

Quindi, anche limitando il discorso alla questione dell’organizzazione, occorre innanzitutto fare un minimo di chiarezza sul piano storico. Nell’ultimo grande movimento di massa che nel capitalismo avanzato sia andato vicino ad un rovesciamento rivoluzionario dello stato borghese, il maggio francese del 1968, i due modelli di organizzazione del proletariato, partito e movimento, che si erano fino a quel momento contrapposti, hanno mostrato entrambi definitivamente la loro inadeguatezza. Gli operai hanno occupato le fabbriche, ma non sono passati all’autogestione, anzi, non sapendo bene cosa farsene finirono per abbandonarle lasciandole deserte. I partiti e le organizzazioni sindacali, ufficiali o meno, invece di guidare l’insurrezione verso la presa del potere, o tacquero o boicottarono il movimento delle occupazioni convogliandolo verso la firma di un accordo contrattale, quello di rue Grenelle, come una qualsiasi lotta rivendicativa. Questo è stato il De profundis per entrambe le concezioni dell’organizzazione di classe, quindi delle loro materializzazioni: il partito leninista, forma di organizzazione che in realtà va fatto risalire al modello della socialdemocrazia, e quello autogestionario dei consigli operai. Quindi, se si vuole usare il linguaggio della sconfitta, è improprio puntare l’indice sulle correnti movimentiste. Nella stessa sconfitta è coinvolto il leninismo, e anche più radicalmente, considerando il naufragio che, poco dopo ha coinvolto tutto il cosiddetto socialismo reale.
Questi fatti e questa presa d’atto impongono e permettono di riaprire il discorso sull’organizzazione con obbiettività, e tentare almeno un bilancio storico. Il lato positivo delle fasi di riflusso è che in esse diviene possibile, anzi necessario, riaprire tutti i discorsi, anche e soprattutto quelli apparentemente conclusi, per adeguarli al mutato panorama storico che si è aperto dopo la “sconfitta”. In realtà, poiché il discorso sulla rivoluzione è una totalità inscindibile, molte sono le questioni cui occorre rispondere. Preliminare quindi definire la forma attualmente assunta dal capitale, ma soprattutto, poiché si parla di organizzazione, i caratteri del movimento storico, le cause del mutamento, fondamento di ogni prassi storica. Ma mentre il primo problema almeno in generale è stato affrontato in sede teorica, il secondo è tuttora, ma in realtà da sempre, irrisolto. Il dilemma è sempre quello tra volontarismo idealistico e determinismo economico, cioè tra pratica cosciente ed organizzata e forze impersonali. Se deve essere prassi cosciente, la forma adeguata è il partito o il movimento ? Se si tratta del partito, ha esso carattere centralizzato o federale ? Se del movimento, sarà questo autorganizzato o campo di intervento di organizzazioni esterne ?
Tutti questi e altri dilemmi nascono dalla duplicità della forma che può assumere il proletariato come forza storica trasformatrice: la forma partito o quella di movimento. La distinzione e l’opposizione tra queste due forme sta nel fattore da cui prendono origine. In prima approssimazione questo può essere individuato nella teoria per il partito, nella lotta per il movimento. Ma tali definizioni devono essere messa alla prova sviluppandone le rispettive implicazioni, verificandone la coerenza interna e confrontandole fra loro.

PARTITO E MOVIMENTO

Dunque il partito si pone essenzialmente come depositario della teoria. Ma su quale elemento può fondare tale pretesa ? Si tratta di un fattore reale, il fatto che è effettivamente il detentore della memoria storica, non essendo altro la teoria che la memoria tradotta in discorso esplicativo del corso storico stesso. Ma disponendo di un tale strumento il partito può di conseguenza rivendicare immediatamente il ruolo di organo dirigente per l’azione della classe, cioè di centro della sua organizzazione. Questo ruolo viene reclamato non solo in relazione alla prassi, ma anche riguardo l’attività intellettuale, poiché, se la coscienza è essenzialmente conoscenza, cioè teoria diffusa tra le masse, al partito deve essere attribuito il ruolo di depositario della coscienza proletaria, sia per l’analisi della condizione del proletariato che per gli obbiettivi da perseguire per mutarla e i modi per realizzarli.
Il fondamento del movimento è invece essenzialmente pratico, risiedendo esso nella lotta di classe. Questa nasce dalle condizioni di esistenza del proletariato, cioè dai rapporti di subordinazione e sfruttamento, cioè dal rapporto di produzione immediato. Ma dalle necessità della lotta stessa sorge l’organizzazione. E nella lotta matura anche la coscienza.
Quindi entrambe le forme nelle quali si struttura il proletariato sviluppano le determinazioni che fanno del proletariato una classe per sé, cioè una forza storica. Ma cause diverse produrranno effetti diversi, perciò determinazioni con caratteri differenti. Inoltre possono per certi aspetti favorire lo sviluppo delle determinazioni, per altri inibirli. In generale ciò che in una forma è congruente a questo fine nell’altra si pone come limite o anche come impedimento.
Gli aspetti positivi comunemente attribuiti al partito sono i seguenti. La memoria, e quindi la teoria, avranno carattere di discorso razionale, cioè una forma logico deduttiva. Elemento questo che gli permette di competere su questo piano con l’ideologia borghese. Mentre l’organizzazione che può sorgere attraverso l’attività di questo nucleo teorico, sarà di tipo centralizzato e fortemente strutturato, carattere che garantisce sia la continuità che la coordinazione dell’azione, indispensabile soprattutto nello scontro militare.
Considerando ora i limiti della forma partito si può constatare che la memoria storica del partito, ad una analisi rigorosa si rivela in gran parte inconsistente, poco più di una mitologia, quando non una evidente e cosciente falsificazione, finalizzata a lotte di potere interne per il controllo del partito stesso. Infatti tali scontri si svolgono sempre metaforicamente nella forma della contrapposizione di discorsi teorici o di linee politiche fondate su una certa interpretazione della teoria. Cioè si ha sovente una invenzione della memoria.
Il fatto poi di postulare la necessità dell’esistenza di una direzione centrale ristretta, fa sì che il fattore personale acquisisca una importanza sproporzionata. Ciò comporta che l’accesso al nucleo avvenga per cooptazione. Nei casi estremi si giunge a teorizzare l’esistenza di capi carismatici, giungendo infine al culto della personalità e al momento dell’adorazione delle reliquie. Anche prescindendo da tali estremi, tale concezione dell’organizzazione pone la classe nella posizione di una truppa sotto il comando di uno stato maggiore autoproclamatosi tale. La classe così si scinde in due parti: il partito, cioè una minoranza di dirigenti gerarchizzati, ed una stragrande maggioranza di esecutori, scissione che è il fondamento della degenerazione burocratica che affligge i partiti. Infine, se è vero che una organizzazione reale deve durare nel tempo, questa esigenza tende ha travalicare tale necessità e trasformarsi in una feticizzazione dell’organizzazione, che da strumento o mezzo diviene fine in quanto tale, cioè fine a se stesso. Rovesciamento dialettico che prelude sempre alla trasformazione dell’organizzazione rivoluzionaria in istituzione borghese. Cioè il partito diviene una organizzazione settaria, separata dal proletariato, per cui quando il proletariato manifesta la propria autonomia il partito diviene un freno per l’azione della classe.
Riguardo la coscienza, nulla garantisce la purezza della coscienza di cui il partito si dichiara depositario. Il fatto è che anche il partito è immerso nella società e nella storia, quindi sopposto come tutti all’influenza dell’ideologia borghese, cioè dell’egemonia del pensiero della classe dominante. Come antidoto di questo veleno insidioso viene posta la necessità di uno stretto legame con le masse proletarie. Ma se il partito ha bisogno del proletariato come garante della propria coscienza, questo rimedio smentisce la funzione propria del partito di elevare la coscienza del proletariato. All’opposto invece si postula nel partito in quanto organo collettivo l’esistenza di qualità profetiche, cioè la dote dell’infallibilità, ma poiché nella realtà, non esistendo persone superindividuali, queste qualità devono risiedere in una persona, per cui si ritorna di nuovo per altra via al culto della personalità.
Gli aspetti positivi della forma movimento sono speculari a quelli del partito, così come i suoi limiti. Cioè il carattere delle sue determinazioni sono opposti a quelli del partito: quelle positive nell’uno costituiscono un limite nell’altro e viceversa. Essendo il fondamento del movimento la prassi dello scontro di classe, le sue determinazioni avranno carattere pratico. Quindi la memoria¸ e di conseguenza la coscienza, non avranno carattere teorico, cioè di elaborazione intellettuale, ma saranno radicate nelle strutture materiali della società, nelle stesse condizioni di esistenza del proletariato. Infatti i movimenti quando si esauriscono non lasciano tracce nella forma di una organizzazione superstite o di un discorso teorico residuale, ma ne lasciano di ben più durature nelle strutture sociali. Di conseguenza la sua teoria non avrà carattere discorsivo, ma piuttosto emotivo ed intuitivo, avendo come contenuto il vissuto immediato, ciò che mette la sua coscienza al riparo dall’influenza dell’ideologia borghese. Così anche l’organizzazione nasce immediatamente dalle condizioni materiali di esistenza del proletariato, quindi il suo luogo d’origine è il luogo di lavoro come risultato spontaneo dei rapporti di produzione e delle loro contraddizioni, cioè nasce dalle necessità della lotta. Inoltre, essendo tale forma organizzativa una critica pratica del rapporto di produzione, essa si struttura come una anticipazione del comunismo. Cioè si pone come organizzazione egualitaria e antiburocratica, decentrata e orizzontale, cioè non ruolificata e democratica. Quindi la forma movimento crea la sua organizzazione a partire dal luogo di lavoro e dai rapporti di lavoro immediati, facendo dell’organizzazione del lavoro di fabbrica l’ordito su cui costruire il proprio tessuto organizzativo, che a partire dalla fabbrica si espande nella società fino a rendere possibile l’assalto allo stato, il cui potere a quel punto sarà non tanto da prendere quanto da raccogliere. Considerando i limiti delle determinazioni movimentiste, questi sono identici alle determinazioni positive del partito. La coscienza proletaria, proprio per il suo solido ancoraggio al vissuto quotidiano è sottoposta emotivamente alla enorme pressione della realtà materiale del capitale, che come tale sembra esaurire tutte le possibilità materialmente concepibili, presentandosi come una enorme positività che esclude con la sua stessa esistenza ogni possibile alternativa. Inoltre, se l’organizzazione nasce dalla lotta, anche se questa lotta può essere concepita come permanente, con fasi sotterranee e altre in cui diviene visibile (la metafora della vecchia talpa, che scava incessantemente e che non si può prevedere dove emergerà alla luce del sole, rende molto bene l’idea), l’organizzazione indubbiamente può esistere in maniera evidente solo finché dura la lotta stessa. Cioè carattere precipuo del movimento è la sua discontinuità. Inoltre non essendo strutturato non resiste al lavorio altrettanto costante portato avanti dalla borghesia al fine di isolare i proletari gli uni dagli altri, esasperandone la concorrenza, e per disarticolare o recuperare le organizzazioni esistenti.

CONCLUSIONI

Questi punti, ad un dipresso, possono rappresentare i principali termini della questione, considerati teoricamente, ma il superamento della dicotomia partito-movimento rimane un problema che nella pratica resta aperto. Tuttavia l’esperienza storica permette di avanzare alcune considerazioni di carattere generale.
Considerando la questione del ruolo svolto dalla teoria è vero che “senza teoria niente rivoluzione”. Ma questa può anche rivelarsi un ostacolo per il movimento rivoluzionario. Infatti, è compito del movimento storico, del quale la frattura rivoluzionaria è il momento decisivo, esprimere e tentare di realizzare tutte le sue potenzialità. Questo più che un principio è un dato di fatto. La rivoluzione francese è arrivata fino al Terrore, quella inglese fino a Cromwell, quella russa fino ai soviet. Tutte sono poi arretrate avendo toccato i propri limiti delle proprie potenzialità. Ma queste non sono mai date totalmente a priori, ma solo a posteriori, a cose fatte, come insegna la civetta hegeliana. Ciò anche prescindendo dall’eterogenesi dei fini che caratterizza la dialettica della storia. Infatti la teoria può ipotizzare tali potenzialità, ma solo qualitativamente, che è già molto, ma senza mai poter comprovare empiricamente le sue previsioni, che sarebbe a dire il vero pretendere troppo. Del resto l’idea stessa della necessità di una direzione strategica che indichi il cammino verso la vittoria e la ritirata che evita la sconfitta, è quanto meno superflua e al limite pericolosa. Da una parte appare superflua perché, se postuliamo, come è d’obbligo, che il movimento storico tenda alla realizzazione del comunismo, il proletariato non è mai veramente sconfitto, se non quando rinuncia a battersi. Ogni crisi è seguita da una trasformazione delle classi in lotta e dei loro rapporti. Ciò avviene nella forma di una crescente socializzazione delle forze produttive. Certo lo sviluppo storico non è lineare, ma la tendenza generale va in questa direzione. Dall’altra può risultare un’idea pericolosa, perché se è difficile creare una struttura organizzativa centralizzata difficilissimo è liquidarla, impossibile che si sciolga da sé.
Tuttavia, andando alla radice del problema, la questione sostanziale che sta dietro tutti precedenti dilemmi è, come deve essere marxianamente parlando, lo sviluppo delle forze produttive. Il fatto è che la borghesia è la classe dominante perché ha preso possesso della forza produttiva fondamentale, quella che sta dietro tutte le altre, la divisione del lavoro. Essa l’ha sviluppata in una forma che è al contempo progressiva e classista: la cooperazione manifatturiera. Dopo averla sviluppata in fabbrica l’ha poi applicata in ogni campo: oltre a quello produttivo (la fabbrica) l’ha applicata a quello politico (lo stato, il partito), amministrativo (l’ufficio), militare (l’esercito). Il risultato è stato un enorme aumento della produttività del lavoro in ogni campo, ma anche una enorme generalizzazione dei rapporti di subordinazione. Quindi la cooperazione manifatturiera genera una falsa socializzazione, cioè un vero fascismo mascherato da falsa democrazia. Di conseguenza il proletariato non potrà mai eliminare il capitalismo se non si impadronisce della sua forza produttiva, cioè della divisione del lavoro. Quindi è necessario che l’azione emancipatrice del proletariato parta dalla produzione. D’altra parte il resto della società, compreso lo stato, è sovrastruttura, la quale perdendo la sua base materiale cade da sé. Infatti proprio in questa direzione agisce il movimento proletario, di cui i consigli di fabbrica sono stati un momento nel tentativo di divenire classe egemone a livello strutturale e non solo come rapporto di forza. Inquadrata in tale esigenza l’autogestione della produzione implica una riorganizzazione del lavoro su nuove basi, cioè un nuovo rapporto di produzione. Questo significa prima di tutto creare una nuova forma di divisione del lavoro non gerarchica, cioè che non implichi una separazione e contrapposizione tra dirigenti ed esecutori, che smentisca l’identità tra efficienza e gerarchia. Identità questa che se fosse vera implicherebbe che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe come conseguenza necessaria non l’emancipazione del lavoro, come preconizzato da Marx, ma il fascismo, ciò che dimostra per assurdo la falsità di tale idea.
E’ in questo senso che è necessario un nuovo rapporto di produzione. Ma non si può dire che il partito sia la forma adeguata a questo scopo, dato che tende ad esasperare e irrigidire la gerarchia nella divisione del lavoro, in primo luogo quando la applica a sé medesimo in nome dell’efficienza. Infatti tale nuovo rapporto deve iniziate con la presa in possesso dei mezzi di produzione. Ma questo è solo il primo passo, cui deve seguire l’abolizione dei ruoli esclusivamente direttivi ed esecutivi, per arrivare solo come ultimo passo a sostituire lo stato con organizzazioni di base a partire dal quartiere, cioè dal livello locale fino a quello generale, organismi tutti fondati su una divisione del lavoro non gerarchica, che prende a modello quella attuata nella produzione.
E’ con questi compiti che il movimento storico si trova a misurarsi. A questo fine sia le forme storiche del partito che quelle finora realizzate dal movimento si sono dimostrate inadeguate. Dovranno quindi essere superate.

Valerio Bertello
Torino, 27 gennaio 2012

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